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A Montalto dal 1921 al 1927


Elena era deperita a tal punto da essere irriconoscibile. Non poteva lavarsi e pettinarsi da sé; il braccio sinistro era paralizzato; sulla spalla c'era una piaga, che ben presto incomincerà a verminare. Maestro Pasquale il 4 maggio la condusse a Cosenza, dal Prof. Roberto Falcone, Direttore dell'Ospedale Civile, cui l'ammalata narrò ogni cosa.

Il professore, dopo l'esame, cosí concluse: « Niente posso farti, figlia mia, perché sei stata rovinata; il medico che ti ha operato... non è un chirurgo; sono stati tagliati dei nervi...; solo un miracolo potrà risolvere il tuo stato di salute; ormai è già in atto la cancrena! ».

Quindi, rivolto al padre di Elena, gli consigliava di chiedere all'Istituto il risarcimento dei danni. Al riguardo, però, Elena intervenne, convincendo il babbo a non chiedere nulla; ella sperava ancora di poter ritornare a Pagani per riprendere la vita religiosa.

Incominciò a Montalto, nella sua stanzetta, questa nuova dolorosa parentesi. Costretta a letto quasi ogni giorno, si recava soltanto una volta alla settimana all'Istituto delle Suore, cui si sentiva sempre legata, per confessarsi; e per non essere vista, in quel suo stato, quasi deforme, passava per il giardino che univa la casa all'istituto. Ogni giovedí poi riceveva la SS. Eucaristia. Furono mesi di silenziosa sofferenza: ma sempre con la ferma fiducia di riprendere ogni attività.

Nel mese di agosto 1921, quasi a toglierle ogni illusione, sopravvenne un forte dolore allo stomaco, mentre quel po' di nutrimento liquido, che le veniva somministrato con un cucchiaino attraverso un angolo della bocca, quasi interamente serrata, veniva regolarmente rigettato a circa un'ora di distanza.

I medici curanti ordinarono una visita accurata e la radiografia. Fu ricondotta pertanto all'Ospedale Civile di Cosenza, dove il Dr. Cerrito la visitò, e all'esame radiografico le riscontrò un cancro allo stomaco.

Mentre il Dr. Cerrito, spiegando alla sorella di Elena, Giovannina, la gravità della diagnosi, concludeva: « Col male della spalla poteva tirare ancora innanzi, ma con quello dello stomaco, è proprio finita; anch'io - confidava - ne soffro; è un male che non perdona ». Elena percepí queste parole, sempre sveglia, intelligente, come l'abbiamo conosciuta; entrò nella stanza dove s'intratteneva il dottore con la sorella, e con quella franchezza e fortezza di fede che le era abituale, interloquí: « Caro dottore, voi morrete, ma io non morrò di questo male, perché Santa Rita mi guarirà ».

E' facile immaginare con quanta poca convinzione l'interpellato poté accogliere la preannunziata guarigione di quella buona giovane cosí malridotta.

Elena, molto affaticata, anziché tornare subito a Montalto, preferí fermarsi un po' in casa della cugina Elvira Landolfi Aiello, nei pressi della Chiesa parrocchiale di San Gaetano. Prima di entrare in casa della cugina, Elena volle entrare in Chiesa e rivolse una fervida prece a Santa Rita (vi era esposta una statua non grande della Santa), domandando la guarigione del nuovo male che l'aveva colpita allo stomaco. Elena narra, nei suoi appunti, che mentre cosí pregava, vide la statua circondarsi di vividi fulgori abbaglianti; e voltasi alla cugina che le era accanto, le disse impressionata che la statua bruciava. La cugina nulla vedendo non comprese neppure la meravigliata esclamazione di Elena. Nella notte, la Santa le apparve, le parlò: voleva istituita a Montalto la devozione, il suo culto, per ravvivare la fede di quella gente, e chiedeva ad Elena di fare un triduo in suo onore.

Il giorno dopo, Elena ritornò a Montalto e incominciò il triduo a Santa Rita. Alla fine di esso, la visione si rinnovò: il triduo, diceva la Santa, andava ripetuto; compiutolo, Elena sarebbe stata guarita, quanto allo stomaco; le sarebbe rimasto il male della spalla, dovendo soffrire per i peccati degli uomini; rinnovò il desiderio di vedere affermata a Montalto la sua devozione.

La realtà di tali visioni, l'esattezza sostanziale di tali racconti ci sono anche attestate da Mons. Mauro, allora confessore e direttore di Elena. Egli, infatti, riceveva da essa, con candore e immediatamente, la narrazione di quanto le succedeva; si che poté confrontare il preannunzio degli eventi con la loro esatta realizzazione. Il 20 ottobre 1963, qui a Roma, Mons. Mauro, tanto benevolmente, ci manifestava questo suo giudizio positivo. E la sua testimonianza ha un valore ineccepibile.

In realtà, il 21 ottobre di quel 1921, cosí decisivo per la vita di Elena, alle 5 del mattino, Elena risultò completamente guarita del cancro allo stomaco.

Negli appunti leggiamo: « 21 ott., ore 5, S. Rita da Cascia è apparsa nella sua celletta tutta raggiante di luce e facendo un giro attorno alla camera si avvicinò al letto, piegò le coltri e le poggiò la mano destra sullo stomaco, dicendo: "Mangia tutto quello che credi, perché ormai sei guarita. Voglio però che si faccia una statua e sia messa nella Chiesa di S. Domenico e precisamente nella nicchia di S. Giuseppe ".

« Da notare che la Chiesa di S. Domenico, molto danneggiata dal terremoto del 1905, non era allora frequentata da Elena, che non sapeva neppure dove fosse la nicchia di S. Giuseppe.

« La sorella Evangelina dalla camera attigua vide la forte luce che attraverso la fessura della porta si irraggiava dalla stanza di Elena, e credendo si trattasse d'incendio, svelta si levò ed entrò nella stanza della sorella.

« Si accostò al suo letto, vide che Elena era come assopita priva dei sensi e se ne impressionò, sí da chiamare gli altri familiari; temette addirittura che fosse morta. Rientrata, insieme a tutti di casa, trovarono Elena pienamente normale che raccontò loro la visita di S. Rita, la guarigione, le altre parole della visione; e chiese qualcosa da mandare giú. Le fu preparata una bella tazza di caffé con uova frullate, che Elena prese senza avvertire piú alcun fastidio. I familiari, intanto, chiamarono subito il Decano, Mons. Mauro, al quale Elena raccontò di nuovo tutto dettagliatamente, e chiese il permesso di far venire una statua di S. Rita, per collocarla nel luogo indicato dalla stessa Santa ».

Il Decano acconsentí senz'altro; e il padre di Elena ordinava subito la statua alla ditta Guacci di Lecce. Lo stesso Mons. Mauro dopo pochi giorni ebbe un'altra conferma della oggettiva realtà di quelle visioni, e della sincerità di Elena nel riferire con esattezza quelle comunicazioni.

Nella notte dell'8 novembre 1921 (venerdí), - riprendiamo a citare dagli appunti - « le apparve Gesú, vestito di bianco, il cuore era visibile sul petto e dalla ferita del cuore si sprigionò un raggio di luce, che investí il capo di Elena, lasciando su di esso una striscia di capelli inceneriti; mentre Gesú le spiegava che quei raggi erano l'invito del suo amore alla sofferenza; era invitata a partecipare alla Sua Passione, in espiazione dei peccati degli uomini.

« Fu tale lo spavento per quelle faville che l'investivano il capo che Elena saltò dal letto per entrare nella stanza attigua dove dormivano le sorelle; ma cadde svenuta sulla soglia di comunicazione. La sorella Emma, sentendo del rumore, si alzò e nell'attraversare la porta suddetta per andare a prendere i fiammiferi e far luce, passò sul corpo di Elena... Le sorelle la presero e la poggiarono su uno dei loro letti. Al mattino, fu chiamato il Decano ». E Mons. Mauro (come di recente ci confermava) osservò e trovò che realmente sulla testa di Elena c'era una striscia di capelli bruciati, che raccolse e ancora conserva.

Elena aveva lunghi e folti capelli. La sorella Emma glieli raccolse anche quel pomeriggio del 9 novembre, come di consueto, in due lunghe trecce; Elena doveva infatti recarsi dalle Suore del Preziosissimo Sangue per confessarsi. Le Suore, dallo stesso Mons. Mauro avevano appreso il fenomeno dei capelli bruciati; appena Elena arrivò, la Superiora, Suor Rosa Migali, la fece sedere e dinanzi alle altre Suore le chiese di poter dare uno sguardo ai capelli. Elena era alquanto restia; alle insistenze di quella, non potendo ella muovere il braccio, lasciò che la Superiora stessa le togliesse il velo, per osservare i capelli.

« Elena, in quel momento, - come è scritto negli appunti, - chiedeva al Signore che desse comunque un segno, tale da convincere le Suore della realtà di quanto era avvenuto. Ed immediatamente avvertí, come da una mano invisibile, lo strappo della treccia destra, che cadde ai piedi della M. Superiora, la quale, meravigliata e atterrita, la raccolse e la pose sulle ginocchia di Elena, dicendo: « Vedi! una tua treccia; come va? l'hai tagliata tu? »

La treccia, esaminata dai medici locali, « apparve stroncata dal bulbo e nella parte piú nodosa era manifesta l'impronta di una mano ». Il mattino seguente, i capelli mancanti riapparvero integri e vennero ricomposti nella consueta treccia.

Prima di proseguire ci si permetta qualche osservazione. Il mondo di oggi, nello stesso campo cattolico, vede l'avanzare di un criticismo che ha per insegna e scopo di togliere dalla stessa Sacra Scrittura, dalle narrazioni dei Santi Evangeli, il soprannaturale.

Si è idolatri della propria ragione; è un soggettivismo che confina col ridicolo, una presunzione che osservata specialmente in tanti giovani, appena usciti dai banchi della scuola, suscita insieme indignazione e sgomento: indignazione per l'irresponsabilità di quanti li hanno cosí deformati; sgomento per le tristi conseguenze, che purtroppo non è raro costatare.

Cosa diranno costoro della vita, ad es., di un S. Francesco di Paola, tutta impregnata di soprannaturale e di autentici miracoli?

« Scrivendo di un Santo - bene osserva il P. Roberti, op. cit. p. 46 s. - non si può assolutamente prescindere dal soprannaturale... Il soprannaturale avviva meravigliosamente tutto l'essere di S. Francesco, informa il suo operare in modo da fare della sua vita mirabile un intreccio, direi quasi non interrotto, di prodigi. Tale, senza dubbio, è la sua figura storica, se non vogliamo negare valore alle testimonianze della probità umana ».

Lo stesso autore riporta quindi (p. 50) le osservazioni del Bossuet (Orazioni paneg.in onore di S. Francesco di Paola):

« Sono due le ragioni principali per le quali Iddio stende il suo braccio ad opere prodigiose: la prima è per mostrare la sua grandezza e per convincere gli uomini della sua potenza; la seconda per manifestarci la sua bontà e l'amore che porta ai suoi servi. Ora in queste due specie di miracoli io noto questa differenza, che allorquando Dio vuol mostrare col miracolo la sua onnipotenza, egli si serve delle occasioni straordinarie; ma quando vuol mostrare ancora la sua bontà, allora si vale delle occasioni piú volgari (o meglio piú comuni, piú semplici). Il che deriva anche dalla differenza che corre tra questi due divini attributi. L'onnipotenza affronta i piú grandi ostacoli e li sormonta; la bontà invece discende fino a sovvenire i piú piccoli bisogni ».

In rapporto particolarmente a questa seconda specie di eventi straordinari, va ricordata la potenza della fede: cf. Mt. 17, 20 « se avete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: "Spostati di qui e là", ed esso si sposterà e nulla vi sarà impossibile »; Lc. 17, 5 s. « Gli apostoli dissero al Signore: "Aumenta la nostra fede". Rispose loro: "Se avete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo gelso: " Estirpati e trapiantati in mare; e vi ubbidirebbe " ».

La fede è condizione essenziale per ottenere i miracoli, essa dà gloria a Dio; una fede viva, anche in piccola misura, può ottenere miracoli. In S. Matteo Gesú parla di un monte, in S. Luca di un gelso, difficile a sradicarsi per la quantità e l'estensione delle radici profonde. Variano le immagini, l'idea espressa, tanto efficacemente, è la stessa. Con ogni probabilità Gesú è ritornato su questo argomento varie volte nel suo insegnamento; cf. infatti nel secondo evangelo (Mc. 11, 22 ss.) : « Gesú disse ai discepoli: Abbiate fede in Dio. (Pietro aveva espresso la sua meraviglia nel vedere seccato il fico che Gesú aveva maledetto il giorno prima).

« In verità, vi dico: chi dirà a questo monte: "Levati e gettati in mare", e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che quanto dice avvenga, gli sarà concesso. Perciò vi dico: Tutto ciò che domandate nella preghiera, credete di averlo ottenuto, e l'avrete ». Si tratta evidentemente della fede, piena, integrale dedizione dell'uomo a Dio.

« Sappiamo bene che Dio non esaudisce i peccatori (è il cieco dalla nascita, guarito da Gesú, che cosí parla contro i Farisei e in difesa del suo Guaritore), ma esaudisce colui che è timorato di Dio e compie la sua volontà » (Giov. 9, 31).

Ora tale fede sembra ornamento e pregio delle anime candide.

« Quando ci si fida del proprio valore, dei propri mezzi, quando si ha fiducia in sé, com'è possibile provare il bisogno di abbandonarsi a Dio con l'intensità che caratterizza la devozione?

« Tutto ciò che dà a noi motivo d'affermarci e di imporci, e non solo il sapere, dice San Tommaso (Summa Theol., 2a 2ae, q. 82 a. 3 ad 3), è l'occasione che ci porta ad avere fiducia in noi e per questo non ci offriamo, non ci consegniamo totalmente a Dio. Ecco perché la devozione è piú diffusa presso i semplici e le donne. Notate che dico occasione soltanto, perché ogni perfezione umana, sapere compreso, può essere perfettamente sottomessa a Dio, e allora la devozione sovrabbonda ».

Si ricordino le solenni parole di Gesú: « Io ti lodo e ringrazio, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici » (Mt. 11, 25).

S. Francesco di Paola dinanzi al Prelato Girolamo Adorno inviato da Paolo II, che lo esortava a mitigare i rigori della regola, ritenuti eccessivi, prese con le mani dei carboni accesi dal braciere e glieli presentò con queste parole: « Non temete, Monsignore, a chi ama e serve Iddio con sincerità di cuore tutto è possibile. Tutte le creature diventano docili al volere di Colui che attende fedelmente a compiere la volontà del Creatore ».

Non fa pertanto meraviglia alcuna questa fiducia immensa di anime semplici, ricolme di viva fede, nei loro rapporti con Dio, con Gesú N. Signore; una fiducia che porta queste anime elette a rivolgersi a Dio, senza sminuirne in nulla l'infinita maestà, senza ignorarne alcuna delle infinite perfezioni, come fa un bambino verso suo padre.

E l'Onnipotente risponde prontamente, facendo risplendere la sua Bontà, come notava il Bossuet, il Suo paterno amore.

In Elena Aiello troviamo la fede viva, la fiducia immensa e filiale in Gesú; disposizione abituale; non fa pertanto meraviglia se il soprannaturale - come vedremo - entri nella sua esistenza, elemento direi quasi normale.

Parlando di S. Francesco di Paola, il P. Giuseppe M. De Giovanni, S. J., in una delle sue meditazioni, tanto espressive e dense di pensiero, lo definiva: il piú santo dei calabresi e il piú calabrese dei santi. E nell'illustrare questo secondo punto, rilevava fra le altre caratteristiche la ricchezza del sentimento, questa carica emotiva, che se rivolta al bene, e nel nostro caso, a Gesú N. Signore, porta ben presto a quell'ardore nella carità, che rende vividissima la fede, e spontaneo, direi, il clima soprannaturale.

Quando, poi, la carità è sostanziata dal sacrificio, dall'amore delle sofferenze, è escluso ogni pericolo di illusione; al sentimento è congiunta la fortezza di carattere, quella tenacia nell'operare, che bandisce l'indecisione e l'incostanza.

Il P. Saragò nella sua « testimonianza », riportata qui all'inizio, pone quale « terzo aspetto fondamentale di Suor Elena » il lungo martirio nel corpo e nell'animo. Alle sofferenze fisiche già riscontrate finora, mentre permaneva il male alla spalla, in progressivo peggioramento, con la conseguente deformità, nel 1922 ci è dato rilevare qualcosa delle sofferenze dell'animo. E' appena un saggio delle lotte, delle umiliazioni che accompagneranno l'esistenza di Elena.

« Le cose piú sublimi - scrive 1'Hugo - sono quasi sempre le piú difficili a comprendere; perciò molti cittadini, commentando il contegno del vescovo Myriel, nell'assistere un condannato alla ghigliottina, lo chiamarono affettazione. Ma fu solo nelle sale signorili; il popolo che nelle opere sante non suppone mai l'astuzia, ne rimase commosso ed ammirò ».

In caso poi di eventi soprannaturali i dispareri e le conseguenti reazioni sono ancora piú accusati; creano talvolta delle incresciose situazioni, nei confronti delle stesse autorità ecclesiastiche.

Quanto abbiamo narrato finora appassionò ben presto i concittadini di Elena. La sua richiesta di voler diffondere a Montalto la devozione di S. Rita e, in particolare, di porre nella Chiesa di S. Domenico, la statua, aveva ottenuto l'assenso del suo confessore, Mons. Mauro, ch'era insieme Decano del Capitolo di Montalto, ma trovò l'opposizione del parroco della Chiesa del Carmine, don Angelo Bonelli, Tesoriere del Capitolo.

Questi affermava che aveva pensato già, da tempo, a introdurre tale devozione nella sua parrocchia; non disponeva ancora di una statua soltanto perché era mancato il danaro necessario per l'acquisto.

Chi ha conosciuto Suor Elena è rimasto colpito dalla schiettezza e semplicità con cui esponeva il suo pensiero, mentre fissava l'interlocutore con quegli occhi vivi d'intelligenza, che penetravano nell'animo. « Sia il vostro parlare: sí, sí, no, no: il di piú viene dal malvagio » (Mt. 5, 37); Giac. 5, 12). Non conosceva le sfumature, le attenuanti velate, l'ingannevole forma del « dire e non dire ».

Alla schiettezza univa la purezza dell'intenzione e la tenacia, la straordinaria forza di carattere, nell'attuazione. D'altra parte, ella non aveva ormai dubbi sulla reale apparizione della santa: ne erano garanti il confessore, tutti gli episodi costatati dal medesimo confessore e dai familiari. Ella aspettava fermamente da S. Rita la guarigione completa del male alla spalla, ma era stata già guarita dalla Santa dal cancro allo stomaco.

A Don Bonelli riaffermò pertanto che avrebbe compiuto fedelmente quanto S. Rita le aveva indicato; lo riaffermò in modo risoluto: non avrebbe lasciato nulla di intentato, ricorrendo, se necessario, anche all'Arcivescovo.

Ci piace riportare qui una pagina dedicata da G. De Libero al venerabile Cardinale Baronio (+ 1607), per alcuni punti di contatto, tra « la natura fiera e rigida » del Baronio, come lo definiva san Filippo Neri, e « l'energia e schiettezza » accennate in Suor Elena:

« La santità suppone un temperamento energico, volitivo, deciso. Una natura incerta, paurosa, vacillante non è stoffa da farne eroi di nessun genere.

« Per essere santi non bastano gli entusiasmi fugaci, le buone intenzioni; ma occorre decisione irremovibile: sono permesse neppure paure, soste, come quelle dell'aratore (cf. Lc. 11, 57. 62) che volge indietro lo sguardo magari per compiacersi del lavoro compiuto. Sempre avanti!

« Baronio ebbe, e anche questo, certo, fu dono di Dio, un temperamento generoso, capace di ogni ardimento, di ogni immolazione: era tutto di un pezzo, duro, senza le incrinature delle eccezioni, senza riguardo anche per le persone piú grandi e che avrebbero potuto nuocergli.

« Messosi al servizio di Dio, sotto la guida di un santo amabile come Filippo, la natura restò, ma la carità, la pietà, l'addolcí, la pervase, la purificò, senza però cambiarla o distruggerla.

« Nell'interesse, nella dedizione al compito assegnatogli in nome di Dio, non usava mezzi termini, non faceva complimenti.

« La grazia affina la natura, non la distrugge mai ».

Don Bonelli comprese benissimo che sarebbe stato inutile insistere, e ordinò immediatamente una statua di S. Rita, alla Ditta Giovanni Malocore, pure di Lecce.

La risposta di Elena fu ritenuta un atto di intemperanza, di poco rispetto verso il clero e di disobbedienza alle loro disposizioni.

Le voci pervenivano alla povera sofferente, che ne provava intima pena e insieme reagiva con quella vivacità caratteristica del suo carattere.

L'incresciosa situazione si protrasse a lungo. L'Arcivescovo di Cosenza, interessato dal clero, scriveva al Decano Mons. Mauro, di « tener duro perché un solo culto era possibile per santa Rita », nello stesso paese; e alla giovane Elena: « Signorina Aiello, preghi il Signore che non la renda vittima di illusioni diaboliche! ».

Non c'è bisogno di rilevare la gravità della proposizione, con l'accenno di condanna e di disistima in essa implicito!

L'Arcivescovo, però, ad una susseguente lettera di Elena, ordinava che la statua ordinata dalla famiglia Aiello fosse conservata nella loro abitazione e che per la Chiesa del Carmine si provvedesse diversamente. Il 13 maggio arrivò la statua di S. Rita e venne sistemata nella casa di Elena, in uno stipo costruito dal cognato, Giovanni Ferrari.

Era allora Pastore dell'Arcidiocesi di Cosenza, Mons. Tommaso Trussoni (1912-1934). « Il suo governo fu seminato di spine fin dall'inizio per le tristi vicende dei tempi - scrive il P. F. Russo a - sia per il settarismo imperante sia per i lutti arrecati dalla prima Guerra Mondiale. Egli, da buon Pastore, smussò gli odi con l'umiltà e la carità del suo grande cuore e fu angelo di conforto per le anime afflitte e desolate per la perdita dei propri parenti in guerra ».

Uomo di Dio, nel senso pieno della frase, attraeva, cattivava gli animi con la bontà del cuore, e la benevolenza dei modi. Già professore dì Morale nel Seminario di Como, legato da vincoli di parentela con quell'apostolo di carità che fu il servo di Dio don Luigi Guanella, di Como, aveva tutte le doti per discernere e dirigere con l'evangelica prudenza le anime piú privilegiate e le iniziative per l'affermazione del regno di Dio.

Egli darà a Elena, come direttore di spirito e direttore dell'opera, il suo stesso Vicario, Mons. Angelo Sironi.

Egli, fra qualche anno, accoglierà a Cosenza, incoraggerà e proteggerà l'opera di Suor Elena, dando - come vedremo - sagge direttive per evitare ogni inutile e dannosa pubblicità ai fenomeni straordinari di cui parleremo.

E' facile rilevare la prudenza con cui Mons. Trussoni procedette nei confronti di Elena, dalla prima esortazione severa e, direi, distaccata, riportata di sopra; alla considerazione attenta e alla stima con cui ne seguí sempre la vita e l'opera.

La congregazione delle Suore Minime della Passione di N.S.G.C. ha in Mons. Tommaso Trussoni l'illuminato Pastore che ne ha permesso, protetto, aiutato e benedetto l'atto di nascita e i primi passi sempre cosí difficili.

Nel congedare Elena, recatasi, pur sofferente, da lui, Sua Eccellenza l'assicurò delle sue preghiere per la guarigione o per la rassegnazione piena alla volontà del Signore; esortandola ad accettare tutti quei dispiaceri e quei dolori quali gocce del calice amaro di Nostro Signore.

La statua posta nella casa di Elena, vi rimase finché ella rimase a Montalto; quando nel 1927 ella si trasferí a Cosenza per iniziare la sua opera, la statua fu dislocata nella Chiesa di san Domenico, proprio nella nicchia indicata, e dove si vede tuttora.

Elena, intanto, dimesse le vesti di probanda delle Suore del Preziosissimo Sangue, dopo la prima guarigione ottenuta da santa Rita, indossò per voto l'abito che hanno le suore di questa Santa a Cascia. Lo porterà fino a quando non sceglierà quello ideato per la nuova congregazione da lei fondata.

Le sofferenze fisiche e quelle, talvolta piú brucianti, dell'animo, servivano ad affinarne lo spirito e a preparare Elena alla missione cui è - destinata.

In tutto il 1922, si ripeterono gli inviti del Signore a un nuovo genere di sofferenza; Elena ne avvisa il suo confessore: « Tu soffrirai, ma non temere; non è una malattia; ma espressione di carità ». « Ti farò entrare in tristezza con me e il venerdí mi sarai piú unita ».

Nell'inverno, tennero a Montalto una missione, quattro Padri Passionisti, guidati dal P. Ildefonso, che tanta fama ha lasciato nell'Arcidiocesi di Cosenza. Colto, di grande fede; avvince ed esalta con l'esempio, con la sua infiammata eloquenza. Il suo è il tema preferito dalla pietà di Elena: la Passione di N. Signore. Ed Elena ne ascolta le prediche, e va ad esporgli il suo animo. Probabilmente nelle mani di P. Ildefonso finirono gli appunti, gettati giú da Elena, visti da Emma, in un'assenza della sorella, e non piú rintracciati. In essi, Elena aveva annotato quanto riteneva le venisse comunicato dal Signore e da santa Rita.

Dal contatto col rev.mo P. Ildefonso ricevé luce e vigore.

Infine, proprio mentre tanta diversità di pareri turbinavano intorno ad Elena, per la penosa faccenda della statua e dei ripetuti interventi di S. Rita riferiti da lei al proprio confessore, il 2 marzo 1923, primo venerdí del mese, avvenne, per la prima volta, quel fenomeno straordinario che attirerà su Elena l'attenzione di tanta gente, da regioni anche lontanissime, e che si ripeterà annualmente, fino alla sua morte.

E' il 2 marzo; al mattino, dopo la comunione, una voce interna le preannunzia imminente il nuovo genere di sofferenza prescelto per lei dal Signore.

Riporto dagli appunti del 2° quaderno in mio possesso:

« Il primo venerdí di marzo, verso le ore 15 era a letto molto sofferente per la piaga cancrenosa alla spalla sinistra, leggeva il nono venerdí in onore di S. Francesco di Paola; le apparve il Signore vestito di bianco, con la corona di spine; all'invito se voleva partecipare alle sue sofferenze, Elena rispondeva affermativamente; allora il Signore togliendosi dal Suo capo la corona la poneva sul capo di lei.

« A tale contatto usciva un'abbondante effusione di sangue. Il Signore le comunicava che voleva quella sofferenza per convertire i peccatori, per i molti peccati d'impurità, ed essere vittima per soddisfare la Divina Giustizia. Una certa donna, a nome Rosaria, inserviente di famiglia, dopo aver prestato il suo servizio stava per andarsene; avvertendo alcuni lamenti che venivano dalla stanzetta di Elena, si affacciò cautamente per rendersi conto di quanto non sapeva spiegare. Sorpresa alla visione di tanto sangue, subito avvisò i familiari pensando che Elena fosse stata uccisa. Immediatamente corsero nella stanzetta la sorella Emma con tutti i familiari e trovandosi di fronte a quello spettacolo sanguigno fecero chiamare il Dott. Turano e tutti i medici del paese, il Decano Mauro con parecchi altri sacerdoti. Il Dott. Adolfo Turano incominciava immediatamente a praticare dei lavaggi, ma il sangue continuava ad uscire dal capo. Dopo tre ore di alterna emanazione sanguigna il fenomeno scomparve da sé.

« Tutti rimasero sorpresi, confusi, impressionati perché non sapevano spiegare in nessun modo quanto era avvenuto.

« Il secondo venerdí di marzo prima delle ore quindici si trovarono in casa il Dott. Adolfo Turano con parecchie altre persone per controllare se si fosse ripetuto il fenomeno. Infatti, alla stessa ora precisa si verificava lo stesso fenomeno sanguigno; allora il dottore cercò di asciugare il sangue con un fazzoletto, ma al contatto della parte sofferente la pelle si irritava talmente da lasciarle tutti i pori aperti e dolentissimi.

« Alcuni pezzetti della pelle frontale rimanevano attaccati al fazzoletto. Il sangue continuò ad uscire ad intervalli per oltre tre ore.

« Il terzo venerdí di marzo pensando che fosse il fenomeno determinato da fissazione religiosa, il confessore toglieva dalla sua cella l'immagine del crocifisso e le proibiva di leggere qualunque libro che trattasse della Passione di Gesú. Nonostante tale precauzione il fenomeno sanguigno si verificava allo stesso orario e nel medesimo modo. Una signora di S. Benedetto Ullano (D. Virginia Manes), madre del medico dr. Aristodemo Milano, fu mandata dal figlio per costatare il fatto e bagnare un fazzoletto nel sangue. Difatti, rimasta sola nella celletta di Elena, asciugava con un fazzoletto la fronte, poi lo piegava e lo conservava con un pensiero di diffidenza che non fosse quella una malattia pericolosa. Ritornata a San Benedetto trovava il fazzoletto completamente pulito e senza alcuna traccia di sangue. Il figlio dinanzi al racconto della mamma si convertí ricevendo il battesimo.

« Nella visione il Signore rispondendo alle lagnanze di Elena per tutto quello che le veniva fatto per il sudore di sangue affermava che era Lui che la faceva soffrire, doveva essere una sua vittima per il mondo, che non si doveva affliggere che le avevano tolto il Crocifisso perché Lui era sempre presente nel suo cuore e che a conferma di questo le avrebbe dato un segno a tutti visibile facendo riflettere nel suo corpo le piaghe della sua Passione. Difatti nell'ultimo venerdí di marzo Elena soffriva nel corpo coperto di piaghe e Gesú le diceva: "Anche tu devi essere simile a Me perché devi essere la vittima per tanti peccatori e soddisfare alla giustizia del Padre mio perché essi siano salvi".

« Verso le cinque Gesú le diceva: " Figlia mia, ammira come soffro! Ho versato tutto il mio sangue per il mondo ed ora va tutto in rovina; nessuno si avvede delle scelleraggini di cui è ricoperto. Considera l'acerbità del mio dolore per tante ingiurie e disprezzi che ricevo da tanti malvagi e dissoluti". " E che cosa posso fare io, rispondeva Elena, o Gesú mio? Se non Vi fate vedere nessuno mi crederà". Gesú soggiungeva ancora: " Sono tanti peccatori ostinati che determinano la mia giustizia. Non scoraggiarti però, Figlia mia, poiché mi farò vedere verso le ore 13. Dirai al tuo confessore che venerdí verso le ore 13 gli darò un segno ". Ciò detto disparve.

« Il Venerdí seguente, a tutte le altre piaghe delle mani e dei piedi si aggiunse la ferita del Costato. Il Venerdí santo, a mezzogiorno preciso, incominciava il fenomeno. Verso le sei la processione dei misteri passava sotto i balconi della casa di Elena; il segno promesso al confessore è stato quello di potersi (Elena) alzare immediatamente dal letto completamente in sensi ed andare al balcone per assistere alla processione.

« Quando Gesú morto passò sotto il balcone, di nuovo Elena perdeva i sensi con emissione di lagrime di sangue. Alcune gocce cadevano sulla testa della sorella Ida, affacciata al balcone sottostante. In quel momento la sorella Ida si rivolgeva col pensiero verso Gesú lamentandosi che aveva mandato alla sua famiglia quella croce molto fastidiosa per la grande affluenza di gente che veniva da ogni parte e teneva la casa sempre sottosopra.

« Nella notte seguente Ida ebbe in sogno l'avviso di Nostro Signore di non lamentarsi di quella croce perché Elena doveva soffrire per la salvezza di molti peccatori.

« Allora Ida capì che non doveva lamentarsi poiché quella era la missione della sorella Elena. « Il confessore che aveva tutto osservato poté convincersi dopo le molte prove che aveva fatto che il fenomeno non era effetto di suggestione... « Finito il fenomeno e ritornata in sensi dopo che passò la processione, rimase con le piaghe dei piedi, delle ginocchia, del costato e del braccio destro, aperte e doloranti fino al mese di giugno. Il giorno del Corpus Domini si rinnovò il dolore alle piaghe con una nuova effusione di sangue dalle medesime che infine si rimarginavano perfettamente ».

Vedi al riguardo in appendice le relazioni dei medici. Abbiamo già sottolineato che la santità sta nel compiere la volontà del Signore, nell'esercizio della carità: l'amore, la dedizione di tutto se stesso a Dio e al prossimo.

I fenomeni sopra accennati in Elena non ostacolarono affatto la sua straordinaria attività, la normalità della sua vita religiosa; l'espletamento delle sue funzioni di fondatrice e superiora generale di una nuova congregazione.

Le sofferenze del venerdí santo, avvenivano, di consueto, con la assoluta esclusione di ogni curioso; le porte della casa assolutamente chiuse; al mattino del sabato santo suor Elena era già, come di consueto, al suo posto di preghiera, di lavoro, di responsabilità, esternamente come se nulla fosse accaduto.

Quei fenomeni non le facilitarono certo i rapporti con le autorità ecclesiastiche. Risultarono talvolta una fonte di dispiaceri e di umiliazioni.

Ma la gente, nelle sue tribolazioni, accorreva a lei; a lei ci si rivolgeva prima di decisioni importanti.

Chi chiedeva di lei, per averne l'indirizzo, al nome di Suor Elena o di Suor Elena Aiello, vedeva per lo piú sul volto dell'interpellato l'espressione manifesta di chi sente per la prima volta nominare quella persona; ma bastava aggiungere qualche accenno ai fenomeni suddetti, come « la suora che suda sangue », per sentirsi rispondere: « Ah! voi cercate 'a monaca santa », e aveva subito l'indicazione precisa.

E fu questo l'appellativo abituale di Suor Elena.

Guarigione istantanea e completa di Elena (22 maggio 1924)

Diversi sono stati al riguardo i preannunzi dati da Elena che sarebbe completamente guarita dal tormentoso male della spalla: cosí in una lettera del 10 maggio 1924 a Mons. Mauro:

«Rev.do Padre, ieri verso le ore 3 pomeridiane mi apparve Gesú dicendomi: " Figlia mia diletta vuoi guarire oppure vuoi soffrire? ". Io gli dissi: " A soffrire con Voi, Gesú mio, si soffre tanto bene. Ma fate quello che volete ".

« E Gesú: " Ebbene ti farò guarire, ma sappi che ogni venerdí, ti farò entrare in tristezza, cosí mi starai piú unita ". Detto questo scomparve.

« Mi raccomando alle Sue sante preci; umilmente Le bacio la mano. Sua umilissima serva in G.C. Elena Aiello ».

Cosí al dott. Adolfo Turano, chiamato dai familiari per l'aggravarsi dello stato dell'inferma, Elena appena qualche giorno prima del 22, rifece il racconto di una visione avuta da S. Rita, con la indicazione che l'avrebbe guarita il giorno 22, nel pomeriggio.

Il dottore, date le condizioni dell'inferma, giudicò espressione di delirio quella comunicazione! E in tal senso ne parlò ai familiari.

E il 22 maggio, alle 14,45, vestita dalla sorella Emma, fu condotta non senza fatica al piano sottostante, nel salotto dove era la statua di S. Rita: venne adagiata su un divano di fronte alla statua. Ecco la narrazione fatta dalla sorella di Elena, Emma, all'avv. Di Napoli, il 30 ottobre 1961: essa parte dallo stato miserando immediatamente precedente. Elena con grande forza d'animo, toglieva da sé, aiutandosi con uno specchio e usando degli stecchini, i vermi che si formavano nella sua piaga alla spalla.

« E' esatto ciò che vi ha detto la Signora Alina (Caracciolo, sposata Palazzolo, residente a Verona). Potemmo svelare il segreto dei vermi per avere Giovannina spiate le mosse di Elena in una delle sue improvvise sparizioni. Quando assunsi il pietoso compito di estrarli, usai lo stesso metodo di Elena: lo stecchino. Slabbravo la pelle che circondava le piaghe profonde e li facevo saltare con lo stecchino, ma piú ne toglievo, piú ce n'erano! Poi vi deponevo una polverina gialla che mi avevano indicato, senza nessun risultato.

« Elena sopportava con rassegnazione quel tormento, ma la sua fede in S. Rita era incalcolabile. Aveva la certezza di guarire; ma non tutti potevano credere. Erano tre anni!

« Nella notte del 21 maggio 1924 Elena sognò S. Rita dirle che all'indomani alle 15 l'avrebbe guarita.

« In quel mese di Maria, come nei precedenti giorni recitavamo il Rosario; c'erano alcune vicine, e l'assiduo notaio Carlo Taormina, il quale nutriva verso Elena uno speciale affetto.

« In quell'anno Elena era estenuata per le forti crisi avute nel mese di aprile. Dovevamo prendercela in braccio per farla discendere dal piano superiore, come una moribonda, adagiandola poi in quel divano..., sistemato avanti la statua di S. Rita.

« Attendemmo.

« Eravamo trepidanti, inquieti, emozionati, ma non sapevamo dire una parola.

« Recitato il Rosario, a cospetto della statua con lo sportello della custodia aperto, Elena cominciò a pregare in questi termini, con un fil di voce:

« " Dal tuo santuario di misericordia, o Santa degli impossibili e padrona dei casi disperati, rivolgi a me i tuoi occhi pietosi e guarda le angosce che mi opprimono, le sventure che mi percuotono, i bisogni che mi stringono; né alcuna via piú mi rimane! Inaridita è la sorgente delle mie lagrime e la preghiera sta per morire sulle mie labbra confuse! Mi rimane la speranza!

« O S. Rita, potente e pietosa, soccorrimi in questa estrema necessità, concedimi la grazia ch'io ti domando!

« Tu me l'hai promesso! Mi devi fare la grazia e non devi farmi rimanere bugiarda! ".

« E aiutata da me, si alzò e si accostò alla statua.

« Avemmo l'impressione che la mano di Santa Rita, protesa verso il Crocifisso, si fosse scostata per raggiungere la mano del lato offeso di Elena e sollevargliela in alto, e che una vibrazione scuotesse la statua e la custodia. Elena, fra la commozione di noi ancora increduli, ripeté: " Sono guarita! Sono guarita! ". E senza aiuto si mosse liberamente fino al balcone. Vedendo ad una finestra del palazzo dirimpetto sporta la moglie del notaio Ceci, sollevando le braccia esclamò: " Donna Valentina, vedete, sono guarita ".

« Quando le volli vedere la piaga, la trovai chiusa, e vi si scorgeva una cicatrice ».

Nel 2° quaderno leggiamo:

« Nella notte del 21 maggio 1924 ebbi una visione di S. Rita alla quale tante volte mi ero rivolta perché mi guarisse, avendo ottemperato al suo ordine. Che la statua si trovasse ancora in casa mia, ciò non era da me dipeso. Il mio voto si poteva considerare appagato. Ella riconfermando la promessa, mi disse che lo avrebbe fatto, ma che le sofferenze sarebbero perdurate, conchiudendo: " Domani, dopo il Rosario, vieni vicino alla mia immagine che ti guarisco ".

« Ansiosa e confortata, verso le tre del pomeriggio, dopo aver recitato il Rosario con parte delle mie sorelle, con alcune amiche e col compare, aiutata da Emma mi mossi dal divano e mi avvicinai alla statua.

« Pregai rivolgendo ad essa il mio sguardo. Ad un tratto mi sentii leggera e libera nei movimenti. Mi alzai, nella gioia intima che sentivo, e vedendo gli altri in istato di perplessa commozione, dissi: " Sono guarita ". Mi spostai e raggiunsi il balcone; e come vidi donna Valentina Vescillo, istintivamente esclamai, alzando le braccia: " Sono guarita! Vedete ".

La piaga verminosa non esisteva piú ».

Ancora a Montalto - Gigia Mazza Riprendiamo il filo dei nostri appunti. Essi ci portano a Bucita, piccolo borgo tra i castagni, frazione del comune di San Fili, e non molto distante da Montalto.

Qui, in una famiglia numerosa, esemplarmente cristiana, troviamo la giovane che sarà la compagna fedele di Elena, fin dagl'inizi dell'opera, e le succederà nella direzione di essa.

Gigia Mazza nasceva a Bucita il 28 ottobre 1892, da Santo, onesto artigiano e da Maria Guccione. Dei dodici figli, ben quattro fanno parte del glorioso Ordine dei Minimi:

fra Giovanni (nato il 18 giugno 1888); padre Beniamino (del 20 novembre 1893): emigrato negli Stati Uniti nel 1909, militò nello esercito americano (1917-1918), in Inghilterra e in Francia; rientrato in Italia (1920), entrò nell'Ordine di San Francesco di Paola a Genova: fu ordinato sacerdote, a Roma, il 3 luglio 1927;

padre Francesco (del 3 novembre 1903): entrò a 12 anni nel convento annesso al Santuario di Paola; dopo il servizio militare, compí a Roma il corso filosofico e teologico; ordinato sacerdote nel 1930, fu rettore del Collegio dei Minimi (allora a piazza Pompei) fino al 1937; quindi a Paola, dove fu due volte Provinciale (1945-1948 e 1955-1958) ;

padre Arturo (del 7 dicembre 1908), ordinato sacerdote nel 1932.

Tra i figli della sorella maggiore, Pasqualina (morta nel 1918), sposa all'artigiano Vincenzo Laganà, due seguirono gli zii nello stesso Ordine: fra Giovanni (del 1911) e padre Biagio (del 1915); la figliola Concetta (del 1916) entrò nella congregazione fondata da Suor Elena (nel 1930): morí nel 1932.

Una famiglia dunque particolarmente devota di San Francesco di Paola.

Soltanto a 30 anni, nel 1922, Gigia perseguendo il suo desiderio di dedicarsi al Signore, ottenne dai genitori il permesso di entrare nella Congregazione delle Suore Riparatrici del S. Cuore, a Napoli; la grande guerra, prima, e quindi (1918) la morte della sorella Pasqualina, che lasciava 7 figli in tenera età, avevano fatto rimandare la sua partenza.

Ma a Napoli, rimase solo pochi mesi (1 gennaio - 4 maggio 1923): incominciò infatti a sentirsi poco bene, quindi una caduta indusse il medico a rimandarla a casa, per curarsi e ritemprare la propria salute.

Proprio nella quaresima di quell'anno, erano incominciati i fenomeni straordinari di cui abbiamo parlato e a Bucita, come negli altri paesi della provincia, - e forse ancor piú, data la vicinanza, - si parlava della Suora di Montalto che seguiva, in modo cosí impressionante, la passione del Signore. Gigia inoltre, affidata dai familiari alle cure del Dott. Turano, medico della famiglia Aiello e della stessa Suor Elena, si recava periodicamente a Montalto, cosí ebbe modo di informarsi ancora meglio.

Cosí, il venerdí dopo Pasqua, accompagnata dalla mamma, si recò in casa di Elena; per vederla, chiederle consiglio circa la propria vocazione, se dovesse ritornare nel monastero, donde era stata costretta ad uscire, o se il Signore destinasse diversamente, e infine, per assistere alle sofferenze di cui aveva sentito parlare; credeva infatti che Elena soffrisse ogni venerdí.

Con la consueta semplicità, Elena « rispose che col venerdì santo erano finite le sofferenze e che perciò ci voleva l'anno prossimo, perché soltanto nei venerdí di quaresima del mese di marzo si verificavano quei fenomeni. La confortava poi per l'uscita dal Monastero; anche lei era stata costretta a lasciare, per motivi di salute, la congregazione dove era andata, e a ritirarsi in famiglia, afflitta da tante sofferenze ».

E non c'era bisogno che Elena aggiungesse altro su questo punto; quella piaga alla spalla la rendeva quasi deforme.

« Certo - continuava Elena a conforto di Gigia - se il Signore aveva permesso questo, lo aveva fatto senz'altro per un fine, e che non avrebbe mancato di farlo conoscere ».

Confortata da tali parole, Gigia se ne ritornò a casa, animata da viva speranza per il futuro della sua vocazione.

Fu questo l'inizio dei rapporti che legheranno sempre piú la giovane di Bucita ed Elena; ritornando a Montalto dal dr. Turano per la cura, Gigia si recava da Elena, con la quale era ormai solita intrattenersi confidenzialmente. Nella quaresima del 1924 fu presente ai fenomeni che abbiamo descritto.

Perdurando la piaga alla spalla, Elena nel maggio di quell'anno, disse a Gigia di non pensare piú al ritorno a Napoli presso la Congregazione d'onde era uscita; sarebbe stata suora, ma per fare con lei stessa un'opera nuova. A Gigia venne spontaneo il pensiero: « Sta morendo e pensa di istituire un'opera! ». Ed Elena subito: « Non ti preoccupare, perché Santa Rita il 22 di questo mese, mi guarirà ». E le diceva che sarebbe andata a passare qualche settimana di quiete, in casa sua, a Bucita.

Gigia riferí tutto ai suoi familiari. Una vicina di casa, la signora Angelina Asta in Ferrari, afflitta da due tumori all'inguine, nel sentire quanto di Elena veniva narrato, pregò Gigia di interessare Elena del suo caso, perché le ottenesse con le sue preghiere la guarigione.

Gigia l'accontentò: accompagnata dal signor Michele Ferrari, sposo dell'ammalata, e dalla madre di questi, ritornò a Montalto. Elena accondiscese e diede loro una immaginetta di S. Rita, con alcune foglie di rosa, ricevute da Cascia, da applicare sulla parte ammalata. Sulla via del ritorno, Michele Asta con sua madre riassumeva a Gigia le proprie impressioni: « Abbiamo fatto questo cammino, perdendo il nostro tempo ».

Erano rimasti colpiti dalle condizioni compassionevoli in cui Elena allora versava.

« Un'ammalata in quelle condizioni avrebbe mai potuto guarire gli altri? ».

Comunque, ritornati a casa, fiduciosi in santa Rita, applicarono sulle parti sofferenti dell'Angelina 1'immaginetta e le foglie di rosa. Durante la notte, i due ascessi si ruppero; e al mattino, il prof. Santoro che era venuto per l'intervento chirurgico, trovò già l'inferma avviata alla guarigione.

La straordinaria guarigione di Elena (22 maggio) richiamò di nuovo a Montalto Suor Gigia che la trovò perfettamente guarita. Elena promise che presto sarebbe andata a trovarla a Bucita. Difatti in seguito alle lunghe sofferenze della bocca durante i tre anni di degenza a letto, per il continuo uso di ghiaccio, si era determinata una forte periostite. Nel mese di novembre successivo non potendo piú tollerare i forti dolori Elena si decide di andare a Cosenza dal dentista Chimenti. Lungo la via, per una rottura al camion nei pressi di Bucita, Elena approfittò per fare una visita a Suor Gigia. Era la prima volta che Elena visitava la casa di Suor Gigia a Bucita. Riparato il camion poté raggiungere Cosenza e dal dentista fu giudicato necessario estrarre tutti i molari.

« Solo cosí incominciarono a cessare le insopportabili sofferenze che da tanto tempo l'avevano fatta soffrire. Le fu anche praticata una piccola operazione di periostite per un dente molare spezzato qualche anno prima dal medico di Montalto poco competente. Dopo qualche mese, dovendo ritornare a Cosenza per una seconda visita medica, di nuovo ebbe occasione di fermarsi a Bucita e nel salutare Suor Gigia disse alla mamma, zia Maria, che il Signore voleva iniziata un'opera con la figliuola Suor Gigia e che perciò dovevano consentire di farla partire con lei per Cosenza.

« La mamma rispose che se era cosí avrebbe dato il permesso ma se doveva ritornare invece di nuovo in un'altra Congregazione religiosa non avrebbe avuto piacere, dato che la prova non era riuscita bene ».