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A Montalto dal 1921 al 1927
Elena
era deperita a tal punto da essere irriconoscibile. Non poteva lavarsi
e pettinarsi da sé; il braccio sinistro era paralizzato; sulla spalla
c'era una piaga, che ben presto incomincerà a verminare. Maestro
Pasquale il 4 maggio la condusse a Cosenza, dal Prof. Roberto Falcone,
Direttore dell'Ospedale Civile, cui l'ammalata narrò ogni cosa.
Il
professore, dopo l'esame, cosí concluse: « Niente posso farti, figlia
mia, perché sei stata rovinata; il medico che ti ha operato... non è un
chirurgo; sono stati tagliati dei nervi...; solo un miracolo potrà
risolvere il tuo stato di salute; ormai è già in atto la cancrena! ».
Quindi,
rivolto al padre di Elena, gli consigliava di chiedere all'Istituto il
risarcimento dei danni. Al riguardo, però, Elena intervenne,
convincendo il babbo a non chiedere nulla; ella sperava ancora di poter
ritornare a Pagani per riprendere la vita religiosa.
Incominciò
a Montalto, nella sua stanzetta, questa nuova dolorosa parentesi.
Costretta a letto quasi ogni giorno, si recava soltanto una volta alla
settimana all'Istituto delle Suore, cui si sentiva sempre legata, per
confessarsi; e per non essere vista, in quel suo stato, quasi deforme,
passava per il giardino che univa la casa all'istituto. Ogni giovedí
poi riceveva la SS. Eucaristia. Furono mesi di silenziosa sofferenza:
ma sempre con la ferma fiducia di riprendere ogni attività.
Nel
mese di agosto 1921, quasi a toglierle ogni illusione, sopravvenne un
forte dolore allo stomaco, mentre quel po' di nutrimento liquido, che
le veniva somministrato con un cucchiaino attraverso un angolo della
bocca, quasi interamente serrata, veniva regolarmente rigettato a circa
un'ora di distanza.
I medici curanti ordinarono una visita
accurata e la radiografia. Fu ricondotta pertanto all'Ospedale Civile
di Cosenza, dove il Dr. Cerrito la visitò, e all'esame radiografico le
riscontrò un cancro allo stomaco.
Mentre il Dr. Cerrito,
spiegando alla sorella di Elena, Giovannina, la gravità della diagnosi,
concludeva: « Col male della spalla poteva tirare ancora innanzi, ma
con quello dello stomaco, è proprio finita; anch'io - confidava - ne
soffro; è un male che non perdona ». Elena percepí queste parole,
sempre sveglia, intelligente, come l'abbiamo conosciuta; entrò nella
stanza dove s'intratteneva il dottore con la sorella, e con quella
franchezza e fortezza di fede che le era abituale, interloquí: « Caro
dottore, voi morrete, ma io non morrò di questo male, perché Santa Rita
mi guarirà ».
E' facile immaginare con quanta poca convinzione
l'interpellato poté accogliere la preannunziata guarigione di quella
buona giovane cosí malridotta.
Elena, molto affaticata, anziché
tornare subito a Montalto, preferí fermarsi un po' in casa della cugina
Elvira Landolfi Aiello, nei pressi della Chiesa parrocchiale di San
Gaetano. Prima di entrare in casa della cugina, Elena volle entrare in
Chiesa e rivolse una fervida prece a Santa Rita (vi era esposta una
statua non grande della Santa), domandando la guarigione del nuovo male
che l'aveva colpita allo stomaco. Elena narra, nei suoi appunti, che
mentre cosí pregava, vide la statua circondarsi di vividi fulgori
abbaglianti; e voltasi alla cugina che le era accanto, le disse
impressionata che la statua bruciava. La cugina nulla vedendo non
comprese neppure la meravigliata esclamazione di Elena. Nella notte, la
Santa le apparve, le parlò: voleva istituita a Montalto la devozione,
il suo culto, per ravvivare la fede di quella gente, e chiedeva ad
Elena di fare un triduo in suo onore.
Il giorno dopo, Elena
ritornò a Montalto e incominciò il triduo a Santa Rita. Alla fine di
esso, la visione si rinnovò: il triduo, diceva la Santa, andava
ripetuto; compiutolo, Elena sarebbe stata guarita, quanto allo stomaco;
le sarebbe rimasto il male della spalla, dovendo soffrire per i peccati
degli uomini; rinnovò il desiderio di vedere affermata a Montalto la
sua devozione.
La realtà di tali visioni, l'esattezza
sostanziale di tali racconti ci sono anche attestate da Mons. Mauro,
allora confessore e direttore di Elena. Egli, infatti, riceveva da
essa, con candore e immediatamente, la narrazione di quanto le
succedeva; si che poté confrontare il preannunzio degli eventi con la
loro esatta realizzazione. Il 20 ottobre 1963, qui a Roma, Mons. Mauro,
tanto benevolmente, ci manifestava questo suo giudizio positivo. E la
sua testimonianza ha un valore ineccepibile.
In realtà, il 21
ottobre di quel 1921, cosí decisivo per la vita di Elena, alle 5 del
mattino, Elena risultò completamente guarita del cancro allo stomaco.
Negli
appunti leggiamo: « 21 ott., ore 5, S. Rita da Cascia è apparsa nella
sua celletta tutta raggiante di luce e facendo un giro attorno alla
camera si avvicinò al letto, piegò le coltri e le poggiò la mano destra
sullo stomaco, dicendo: "Mangia tutto quello che credi, perché ormai
sei guarita. Voglio però che si faccia una statua e sia messa nella
Chiesa di S. Domenico e precisamente nella nicchia di S. Giuseppe ".
«
Da notare che la Chiesa di S. Domenico, molto danneggiata dal terremoto
del 1905, non era allora frequentata da Elena, che non sapeva neppure
dove fosse la nicchia di S. Giuseppe.
« La sorella Evangelina
dalla camera attigua vide la forte luce che attraverso la fessura della
porta si irraggiava dalla stanza di Elena, e credendo si trattasse
d'incendio, svelta si levò ed entrò nella stanza della sorella.
«
Si accostò al suo letto, vide che Elena era come assopita priva dei
sensi e se ne impressionò, sí da chiamare gli altri familiari; temette
addirittura che fosse morta. Rientrata, insieme a tutti di casa,
trovarono Elena pienamente normale che raccontò loro la visita di S.
Rita, la guarigione, le altre parole della visione; e chiese qualcosa
da mandare giú. Le fu preparata una bella tazza di caffé con uova
frullate, che Elena prese senza avvertire piú alcun fastidio. I
familiari, intanto, chiamarono subito il Decano, Mons. Mauro, al quale
Elena raccontò di nuovo tutto dettagliatamente, e chiese il permesso di
far venire una statua di S. Rita, per collocarla nel luogo indicato
dalla stessa Santa ».
Il Decano acconsentí senz'altro; e il
padre di Elena ordinava subito la statua alla ditta Guacci di Lecce. Lo
stesso Mons. Mauro dopo pochi giorni ebbe un'altra conferma della
oggettiva realtà di quelle visioni, e della sincerità di Elena nel
riferire con esattezza quelle comunicazioni.
Nella notte dell'8
novembre 1921 (venerdí), - riprendiamo a citare dagli appunti - « le
apparve Gesú, vestito di bianco, il cuore era visibile sul petto e
dalla ferita del cuore si sprigionò un raggio di luce, che investí il
capo di Elena, lasciando su di esso una striscia di capelli inceneriti;
mentre Gesú le spiegava che quei raggi erano l'invito del suo amore
alla sofferenza; era invitata a partecipare alla Sua Passione, in
espiazione dei peccati degli uomini.
« Fu tale lo spavento per
quelle faville che l'investivano il capo che Elena saltò dal letto per
entrare nella stanza attigua dove dormivano le sorelle; ma cadde
svenuta sulla soglia di comunicazione. La sorella Emma, sentendo del
rumore, si alzò e nell'attraversare la porta suddetta per andare a
prendere i fiammiferi e far luce, passò sul corpo di Elena... Le
sorelle la presero e la poggiarono su uno dei loro letti. Al mattino,
fu chiamato il Decano ». E Mons. Mauro (come di recente ci confermava)
osservò e trovò che realmente sulla testa di Elena c'era una striscia
di capelli bruciati, che raccolse e ancora conserva.
Elena aveva
lunghi e folti capelli. La sorella Emma glieli raccolse anche quel
pomeriggio del 9 novembre, come di consueto, in due lunghe trecce;
Elena doveva infatti recarsi dalle Suore del Preziosissimo Sangue per
confessarsi. Le Suore, dallo stesso Mons. Mauro avevano appreso il
fenomeno dei capelli bruciati; appena Elena arrivò, la Superiora, Suor
Rosa Migali, la fece sedere e dinanzi alle altre Suore le chiese di
poter dare uno sguardo ai capelli. Elena era alquanto restia; alle
insistenze di quella, non potendo ella muovere il braccio, lasciò che
la Superiora stessa le togliesse il velo, per osservare i capelli.
«
Elena, in quel momento, - come è scritto negli appunti, - chiedeva al
Signore che desse comunque un segno, tale da convincere le Suore della
realtà di quanto era avvenuto. Ed immediatamente avvertí, come da una
mano invisibile, lo strappo della treccia destra, che cadde ai piedi
della M. Superiora, la quale, meravigliata e atterrita, la raccolse e
la pose sulle ginocchia di Elena, dicendo: « Vedi! una tua treccia;
come va? l'hai tagliata tu? »
La treccia, esaminata dai medici
locali, « apparve stroncata dal bulbo e nella parte piú nodosa era
manifesta l'impronta di una mano ». Il mattino seguente, i capelli
mancanti riapparvero integri e vennero ricomposti nella consueta
treccia.
Prima di proseguire ci si permetta qualche
osservazione. Il mondo di oggi, nello stesso campo cattolico, vede
l'avanzare di un criticismo che ha per insegna e scopo di togliere
dalla stessa Sacra Scrittura, dalle narrazioni dei Santi Evangeli, il
soprannaturale.
Si è idolatri della propria ragione; è un
soggettivismo che confina col ridicolo, una presunzione che osservata
specialmente in tanti giovani, appena usciti dai banchi della scuola,
suscita insieme indignazione e sgomento: indignazione per
l'irresponsabilità di quanti li hanno cosí deformati; sgomento per le
tristi conseguenze, che purtroppo non è raro costatare.
Cosa
diranno costoro della vita, ad es., di un S. Francesco di Paola, tutta
impregnata di soprannaturale e di autentici miracoli?
«
Scrivendo di un Santo - bene osserva il P. Roberti, op. cit. p. 46 s. -
non si può assolutamente prescindere dal soprannaturale... Il
soprannaturale avviva meravigliosamente tutto l'essere di S. Francesco,
informa il suo operare in modo da fare della sua vita mirabile un
intreccio, direi quasi non interrotto, di prodigi. Tale, senza dubbio,
è la sua figura storica, se non vogliamo negare valore alle
testimonianze della probità umana ».
Lo stesso autore riporta quindi (p. 50) le osservazioni del Bossuet (Orazioni paneg.in onore di S. Francesco di Paola):
«
Sono due le ragioni principali per le quali Iddio stende il suo braccio
ad opere prodigiose: la prima è per mostrare la sua grandezza e per
convincere gli uomini della sua potenza; la seconda per manifestarci la
sua bontà e l'amore che porta ai suoi servi. Ora in queste due specie
di miracoli io noto questa differenza, che allorquando Dio vuol
mostrare col miracolo la sua onnipotenza, egli si serve delle occasioni
straordinarie; ma quando vuol mostrare ancora la sua bontà, allora si
vale delle occasioni piú volgari (o meglio piú comuni, piú semplici).
Il che deriva anche dalla differenza che corre tra questi due divini
attributi. L'onnipotenza affronta i piú grandi ostacoli e li sormonta;
la bontà invece discende fino a sovvenire i piú piccoli bisogni ».
In
rapporto particolarmente a questa seconda specie di eventi
straordinari, va ricordata la potenza della fede: cf. Mt. 17, 20 « se
avete tanta fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo
monte: "Spostati di qui e là", ed esso si sposterà e nulla vi sarà
impossibile »; Lc. 17, 5 s. « Gli apostoli dissero al Signore: "Aumenta
la nostra fede". Rispose loro: "Se avete tanta fede quanto un granello
di senapa, potrete dire a questo gelso: " Estirpati e trapiantati in
mare; e vi ubbidirebbe " ».
La fede è condizione essenziale per
ottenere i miracoli, essa dà gloria a Dio; una fede viva, anche in
piccola misura, può ottenere miracoli. In S. Matteo Gesú parla di un
monte, in S. Luca di un gelso, difficile a sradicarsi per la quantità e
l'estensione delle radici profonde. Variano le immagini, l'idea
espressa, tanto efficacemente, è la stessa. Con ogni probabilità Gesú è
ritornato su questo argomento varie volte nel suo insegnamento; cf.
infatti nel secondo evangelo (Mc. 11, 22 ss.) : « Gesú disse ai
discepoli: Abbiate fede in Dio. (Pietro aveva espresso la sua
meraviglia nel vedere seccato il fico che Gesú aveva maledetto il
giorno prima).
« In verità, vi dico: chi dirà a questo monte:
"Levati e gettati in mare", e non dubiterà in cuor suo, ma crederà che
quanto dice avvenga, gli sarà concesso. Perciò vi dico: Tutto ciò che
domandate nella preghiera, credete di averlo ottenuto, e l'avrete ». Si
tratta evidentemente della fede, piena, integrale dedizione dell'uomo a
Dio.
« Sappiamo bene che Dio non esaudisce i peccatori (è il
cieco dalla nascita, guarito da Gesú, che cosí parla contro i Farisei e
in difesa del suo Guaritore), ma esaudisce colui che è timorato di Dio
e compie la sua volontà » (Giov. 9, 31).
Ora tale fede sembra ornamento e pregio delle anime candide.
«
Quando ci si fida del proprio valore, dei propri mezzi, quando si ha
fiducia in sé, com'è possibile provare il bisogno di abbandonarsi a Dio
con l'intensità che caratterizza la devozione?
« Tutto ciò che
dà a noi motivo d'affermarci e di imporci, e non solo il sapere, dice
San Tommaso (Summa Theol., 2a 2ae, q. 82 a. 3 ad 3), è l'occasione che
ci porta ad avere fiducia in noi e per questo non ci offriamo, non ci
consegniamo totalmente a Dio. Ecco perché la devozione è piú diffusa
presso i semplici e le donne. Notate che dico occasione soltanto,
perché ogni perfezione umana, sapere compreso, può essere perfettamente
sottomessa a Dio, e allora la devozione sovrabbonda ».
Si
ricordino le solenni parole di Gesú: « Io ti lodo e ringrazio, o Padre,
Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose
ai saggi e agli scaltri, e le hai rivelate ai semplici » (Mt. 11, 25).
S.
Francesco di Paola dinanzi al Prelato Girolamo Adorno inviato da Paolo
II, che lo esortava a mitigare i rigori della regola, ritenuti
eccessivi, prese con le mani dei carboni accesi dal braciere e glieli
presentò con queste parole: « Non temete, Monsignore, a chi ama e serve
Iddio con sincerità di cuore tutto è possibile. Tutte le creature
diventano docili al volere di Colui che attende fedelmente a compiere
la volontà del Creatore ».
Non fa pertanto meraviglia alcuna
questa fiducia immensa di anime semplici, ricolme di viva fede, nei
loro rapporti con Dio, con Gesú N. Signore; una fiducia che porta
queste anime elette a rivolgersi a Dio, senza sminuirne in nulla
l'infinita maestà, senza ignorarne alcuna delle infinite perfezioni,
come fa un bambino verso suo padre.
E l'Onnipotente risponde prontamente, facendo risplendere la sua Bontà, come notava il Bossuet, il Suo paterno amore.
In
Elena Aiello troviamo la fede viva, la fiducia immensa e filiale in
Gesú; disposizione abituale; non fa pertanto meraviglia se il
soprannaturale - come vedremo - entri nella sua esistenza, elemento
direi quasi normale.
Parlando di S. Francesco di Paola, il P.
Giuseppe M. De Giovanni, S. J., in una delle sue meditazioni, tanto
espressive e dense di pensiero, lo definiva: il piú santo dei calabresi
e il piú calabrese dei santi. E nell'illustrare questo secondo punto,
rilevava fra le altre caratteristiche la ricchezza del sentimento,
questa carica emotiva, che se rivolta al bene, e nel nostro caso, a
Gesú N. Signore, porta ben presto a quell'ardore nella carità, che
rende vividissima la fede, e spontaneo, direi, il clima soprannaturale.
Quando,
poi, la carità è sostanziata dal sacrificio, dall'amore delle
sofferenze, è escluso ogni pericolo di illusione; al sentimento è
congiunta la fortezza di carattere, quella tenacia nell'operare, che
bandisce l'indecisione e l'incostanza.
Il P. Saragò nella sua «
testimonianza », riportata qui all'inizio, pone quale « terzo aspetto
fondamentale di Suor Elena » il lungo martirio nel corpo e nell'animo.
Alle sofferenze fisiche già riscontrate finora, mentre permaneva il
male alla spalla, in progressivo peggioramento, con la conseguente
deformità, nel 1922 ci è dato rilevare qualcosa delle sofferenze
dell'animo. E' appena un saggio delle lotte, delle umiliazioni che
accompagneranno l'esistenza di Elena.
« Le cose piú sublimi -
scrive 1'Hugo - sono quasi sempre le piú difficili a comprendere;
perciò molti cittadini, commentando il contegno del vescovo Myriel,
nell'assistere un condannato alla ghigliottina, lo chiamarono
affettazione. Ma fu solo nelle sale signorili; il popolo che nelle
opere sante non suppone mai l'astuzia, ne rimase commosso ed ammirò ».
In
caso poi di eventi soprannaturali i dispareri e le conseguenti reazioni
sono ancora piú accusati; creano talvolta delle incresciose situazioni,
nei confronti delle stesse autorità ecclesiastiche.
Quanto
abbiamo narrato finora appassionò ben presto i concittadini di Elena.
La sua richiesta di voler diffondere a Montalto la devozione di S. Rita
e, in particolare, di porre nella Chiesa di S. Domenico, la statua,
aveva ottenuto l'assenso del suo confessore, Mons. Mauro, ch'era
insieme Decano del Capitolo di Montalto, ma trovò l'opposizione del
parroco della Chiesa del Carmine, don Angelo Bonelli, Tesoriere del
Capitolo.
Questi affermava che aveva pensato già, da tempo, a
introdurre tale devozione nella sua parrocchia; non disponeva ancora di
una statua soltanto perché era mancato il danaro necessario per
l'acquisto.
Chi ha conosciuto Suor Elena è rimasto colpito dalla
schiettezza e semplicità con cui esponeva il suo pensiero, mentre
fissava l'interlocutore con quegli occhi vivi d'intelligenza, che
penetravano nell'animo. « Sia il vostro parlare: sí, sí, no, no: il di
piú viene dal malvagio » (Mt. 5, 37); Giac. 5, 12). Non conosceva le
sfumature, le attenuanti velate, l'ingannevole forma del « dire e non
dire ».
Alla schiettezza univa la purezza dell'intenzione e la
tenacia, la straordinaria forza di carattere, nell'attuazione. D'altra
parte, ella non aveva ormai dubbi sulla reale apparizione della santa:
ne erano garanti il confessore, tutti gli episodi costatati dal
medesimo confessore e dai familiari. Ella aspettava fermamente da S.
Rita la guarigione completa del male alla spalla, ma era stata già
guarita dalla Santa dal cancro allo stomaco.
A Don Bonelli
riaffermò pertanto che avrebbe compiuto fedelmente quanto S. Rita le
aveva indicato; lo riaffermò in modo risoluto: non avrebbe lasciato
nulla di intentato, ricorrendo, se necessario, anche all'Arcivescovo.
Ci
piace riportare qui una pagina dedicata da G. De Libero al venerabile
Cardinale Baronio (+ 1607), per alcuni punti di contatto, tra « la
natura fiera e rigida » del Baronio, come lo definiva san Filippo Neri,
e « l'energia e schiettezza » accennate in Suor Elena:
« La
santità suppone un temperamento energico, volitivo, deciso. Una natura
incerta, paurosa, vacillante non è stoffa da farne eroi di nessun
genere.
« Per essere santi non bastano gli entusiasmi fugaci, le
buone intenzioni; ma occorre decisione irremovibile: sono permesse
neppure paure, soste, come quelle dell'aratore (cf. Lc. 11, 57. 62) che
volge indietro lo sguardo magari per compiacersi del lavoro compiuto.
Sempre avanti!
« Baronio ebbe, e anche questo, certo, fu dono di
Dio, un temperamento generoso, capace di ogni ardimento, di ogni
immolazione: era tutto di un pezzo, duro, senza le incrinature delle
eccezioni, senza riguardo anche per le persone piú grandi e che
avrebbero potuto nuocergli.
« Messosi al servizio di Dio, sotto
la guida di un santo amabile come Filippo, la natura restò, ma la
carità, la pietà, l'addolcí, la pervase, la purificò, senza però
cambiarla o distruggerla.
« Nell'interesse, nella dedizione al compito assegnatogli in nome di Dio, non usava mezzi termini, non faceva complimenti.
« La grazia affina la natura, non la distrugge mai ».
Don
Bonelli comprese benissimo che sarebbe stato inutile insistere, e
ordinò immediatamente una statua di S. Rita, alla Ditta Giovanni
Malocore, pure di Lecce.
La risposta di Elena fu ritenuta un
atto di intemperanza, di poco rispetto verso il clero e di
disobbedienza alle loro disposizioni.
Le voci pervenivano alla
povera sofferente, che ne provava intima pena e insieme reagiva con
quella vivacità caratteristica del suo carattere.
L'incresciosa
situazione si protrasse a lungo. L'Arcivescovo di Cosenza, interessato
dal clero, scriveva al Decano Mons. Mauro, di « tener duro perché un
solo culto era possibile per santa Rita », nello stesso paese; e alla
giovane Elena: « Signorina Aiello, preghi il Signore che non la renda
vittima di illusioni diaboliche! ».
Non c'è bisogno di rilevare la gravità della proposizione, con l'accenno di condanna e di disistima in essa implicito!
L'Arcivescovo,
però, ad una susseguente lettera di Elena, ordinava che la statua
ordinata dalla famiglia Aiello fosse conservata nella loro abitazione e
che per la Chiesa del Carmine si provvedesse diversamente. Il 13 maggio
arrivò la statua di S. Rita e venne sistemata nella casa di Elena, in
uno stipo costruito dal cognato, Giovanni Ferrari.
Era allora
Pastore dell'Arcidiocesi di Cosenza, Mons. Tommaso Trussoni
(1912-1934). « Il suo governo fu seminato di spine fin dall'inizio per
le tristi vicende dei tempi - scrive il P. F. Russo a - sia per il
settarismo imperante sia per i lutti arrecati dalla prima Guerra
Mondiale. Egli, da buon Pastore, smussò gli odi con l'umiltà e la
carità del suo grande cuore e fu angelo di conforto per le anime
afflitte e desolate per la perdita dei propri parenti in guerra ».
Uomo
di Dio, nel senso pieno della frase, attraeva, cattivava gli animi con
la bontà del cuore, e la benevolenza dei modi. Già professore dì Morale
nel Seminario di Como, legato da vincoli di parentela con
quell'apostolo di carità che fu il servo di Dio don Luigi Guanella, di
Como, aveva tutte le doti per discernere e dirigere con l'evangelica
prudenza le anime piú privilegiate e le iniziative per l'affermazione
del regno di Dio.
Egli darà a Elena, come direttore di spirito e direttore dell'opera, il suo stesso Vicario, Mons. Angelo Sironi.
Egli,
fra qualche anno, accoglierà a Cosenza, incoraggerà e proteggerà
l'opera di Suor Elena, dando - come vedremo - sagge direttive per
evitare ogni inutile e dannosa pubblicità ai fenomeni straordinari di
cui parleremo.
E' facile rilevare la prudenza con cui Mons.
Trussoni procedette nei confronti di Elena, dalla prima esortazione
severa e, direi, distaccata, riportata di sopra; alla considerazione
attenta e alla stima con cui ne seguí sempre la vita e l'opera.
La
congregazione delle Suore Minime della Passione di N.S.G.C. ha in Mons.
Tommaso Trussoni l'illuminato Pastore che ne ha permesso, protetto,
aiutato e benedetto l'atto di nascita e i primi passi sempre cosí
difficili.
Nel congedare Elena, recatasi, pur sofferente, da
lui, Sua Eccellenza l'assicurò delle sue preghiere per la guarigione o
per la rassegnazione piena alla volontà del Signore; esortandola ad
accettare tutti quei dispiaceri e quei dolori quali gocce del calice
amaro di Nostro Signore.
La statua posta nella casa di Elena, vi
rimase finché ella rimase a Montalto; quando nel 1927 ella si trasferí
a Cosenza per iniziare la sua opera, la statua fu dislocata nella
Chiesa di san Domenico, proprio nella nicchia indicata, e dove si vede
tuttora.
Elena, intanto, dimesse le vesti di probanda delle
Suore del Preziosissimo Sangue, dopo la prima guarigione ottenuta da
santa Rita, indossò per voto l'abito che hanno le suore di questa Santa
a Cascia. Lo porterà fino a quando non sceglierà quello ideato per la
nuova congregazione da lei fondata.
Le sofferenze fisiche e
quelle, talvolta piú brucianti, dell'animo, servivano ad affinarne lo
spirito e a preparare Elena alla missione cui è - destinata.
In
tutto il 1922, si ripeterono gli inviti del Signore a un nuovo genere
di sofferenza; Elena ne avvisa il suo confessore: « Tu soffrirai, ma
non temere; non è una malattia; ma espressione di carità ». « Ti farò
entrare in tristezza con me e il venerdí mi sarai piú unita ».
Nell'inverno,
tennero a Montalto una missione, quattro Padri Passionisti, guidati dal
P. Ildefonso, che tanta fama ha lasciato nell'Arcidiocesi di Cosenza.
Colto, di grande fede; avvince ed esalta con l'esempio, con la sua
infiammata eloquenza. Il suo è il tema preferito dalla pietà di Elena:
la Passione di N. Signore. Ed Elena ne ascolta le prediche, e va ad
esporgli il suo animo. Probabilmente nelle mani di P. Ildefonso
finirono gli appunti, gettati giú da Elena, visti da Emma, in
un'assenza della sorella, e non piú rintracciati. In essi, Elena aveva
annotato quanto riteneva le venisse comunicato dal Signore e da santa
Rita.
Dal contatto col rev.mo P. Ildefonso ricevé luce e vigore.
Infine,
proprio mentre tanta diversità di pareri turbinavano intorno ad Elena,
per la penosa faccenda della statua e dei ripetuti interventi di S.
Rita riferiti da lei al proprio confessore, il 2 marzo 1923, primo
venerdí del mese, avvenne, per la prima volta, quel fenomeno
straordinario che attirerà su Elena l'attenzione di tanta gente, da
regioni anche lontanissime, e che si ripeterà annualmente, fino alla
sua morte.
E' il 2 marzo; al mattino, dopo la comunione, una
voce interna le preannunzia imminente il nuovo genere di sofferenza
prescelto per lei dal Signore.
Riporto dagli appunti del 2° quaderno in mio possesso:
«
Il primo venerdí di marzo, verso le ore 15 era a letto molto sofferente
per la piaga cancrenosa alla spalla sinistra, leggeva il nono venerdí
in onore di S. Francesco di Paola; le apparve il Signore vestito di
bianco, con la corona di spine; all'invito se voleva partecipare alle
sue sofferenze, Elena rispondeva affermativamente; allora il Signore
togliendosi dal Suo capo la corona la poneva sul capo di lei.
«
A tale contatto usciva un'abbondante effusione di sangue. Il Signore le
comunicava che voleva quella sofferenza per convertire i peccatori, per
i molti peccati d'impurità, ed essere vittima per soddisfare la Divina
Giustizia. Una certa donna, a nome Rosaria, inserviente di famiglia,
dopo aver prestato il suo servizio stava per andarsene; avvertendo
alcuni lamenti che venivano dalla stanzetta di Elena, si affacciò
cautamente per rendersi conto di quanto non sapeva spiegare. Sorpresa
alla visione di tanto sangue, subito avvisò i familiari pensando che
Elena fosse stata uccisa. Immediatamente corsero nella stanzetta la
sorella Emma con tutti i familiari e trovandosi di fronte a quello
spettacolo sanguigno fecero chiamare il Dott. Turano e tutti i medici
del paese, il Decano Mauro con parecchi altri sacerdoti. Il Dott.
Adolfo Turano incominciava immediatamente a praticare dei lavaggi, ma
il sangue continuava ad uscire dal capo. Dopo tre ore di alterna
emanazione sanguigna il fenomeno scomparve da sé.
« Tutti rimasero sorpresi, confusi, impressionati perché non sapevano spiegare in nessun modo quanto era avvenuto.
«
Il secondo venerdí di marzo prima delle ore quindici si trovarono in
casa il Dott. Adolfo Turano con parecchie altre persone per controllare
se si fosse ripetuto il fenomeno. Infatti, alla stessa ora precisa si
verificava lo stesso fenomeno sanguigno; allora il dottore cercò di
asciugare il sangue con un fazzoletto, ma al contatto della parte
sofferente la pelle si irritava talmente da lasciarle tutti i pori
aperti e dolentissimi.
« Alcuni pezzetti della pelle frontale
rimanevano attaccati al fazzoletto. Il sangue continuò ad uscire ad
intervalli per oltre tre ore.
« Il terzo venerdí di marzo
pensando che fosse il fenomeno determinato da fissazione religiosa, il
confessore toglieva dalla sua cella l'immagine del crocifisso e le
proibiva di leggere qualunque libro che trattasse della Passione di
Gesú. Nonostante tale precauzione il fenomeno sanguigno si verificava
allo stesso orario e nel medesimo modo. Una signora di S. Benedetto
Ullano (D. Virginia Manes), madre del medico dr. Aristodemo Milano, fu
mandata dal figlio per costatare il fatto e bagnare un fazzoletto nel
sangue. Difatti, rimasta sola nella celletta di Elena, asciugava con un
fazzoletto la fronte, poi lo piegava e lo conservava con un pensiero di
diffidenza che non fosse quella una malattia pericolosa. Ritornata a
San Benedetto trovava il fazzoletto completamente pulito e senza alcuna
traccia di sangue. Il figlio dinanzi al racconto della mamma si
convertí ricevendo il battesimo.
« Nella visione il Signore
rispondendo alle lagnanze di Elena per tutto quello che le veniva fatto
per il sudore di sangue affermava che era Lui che la faceva soffrire,
doveva essere una sua vittima per il mondo, che non si doveva
affliggere che le avevano tolto il Crocifisso perché Lui era sempre
presente nel suo cuore e che a conferma di questo le avrebbe dato un
segno a tutti visibile facendo riflettere nel suo corpo le piaghe della
sua Passione. Difatti nell'ultimo venerdí di marzo Elena soffriva nel
corpo coperto di piaghe e Gesú le diceva: "Anche tu devi essere simile
a Me perché devi essere la vittima per tanti peccatori e soddisfare
alla giustizia del Padre mio perché essi siano salvi".
« Verso
le cinque Gesú le diceva: " Figlia mia, ammira come soffro! Ho versato
tutto il mio sangue per il mondo ed ora va tutto in rovina; nessuno si
avvede delle scelleraggini di cui è ricoperto. Considera l'acerbità del
mio dolore per tante ingiurie e disprezzi che ricevo da tanti malvagi e
dissoluti". " E che cosa posso fare io, rispondeva Elena, o Gesú mio?
Se non Vi fate vedere nessuno mi crederà". Gesú soggiungeva ancora: "
Sono tanti peccatori ostinati che determinano la mia giustizia. Non
scoraggiarti però, Figlia mia, poiché mi farò vedere verso le ore 13.
Dirai al tuo confessore che venerdí verso le ore 13 gli darò un segno
". Ciò detto disparve.
« Il Venerdí seguente, a tutte le altre
piaghe delle mani e dei piedi si aggiunse la ferita del Costato. Il
Venerdí santo, a mezzogiorno preciso, incominciava il fenomeno. Verso
le sei la processione dei misteri passava sotto i balconi della casa di
Elena; il segno promesso al confessore è stato quello di potersi
(Elena) alzare immediatamente dal letto completamente in sensi ed
andare al balcone per assistere alla processione.
« Quando Gesú
morto passò sotto il balcone, di nuovo Elena perdeva i sensi con
emissione di lagrime di sangue. Alcune gocce cadevano sulla testa della
sorella Ida, affacciata al balcone sottostante. In quel momento la
sorella Ida si rivolgeva col pensiero verso Gesú lamentandosi che aveva
mandato alla sua famiglia quella croce molto fastidiosa per la grande
affluenza di gente che veniva da ogni parte e teneva la casa sempre
sottosopra.
« Nella notte seguente Ida ebbe in sogno l'avviso di
Nostro Signore di non lamentarsi di quella croce perché Elena doveva
soffrire per la salvezza di molti peccatori.
« Allora Ida capì
che non doveva lamentarsi poiché quella era la missione della sorella
Elena. « Il confessore che aveva tutto osservato poté convincersi dopo
le molte prove che aveva fatto che il fenomeno non era effetto di
suggestione... « Finito il fenomeno e ritornata in sensi dopo che passò
la processione, rimase con le piaghe dei piedi, delle ginocchia, del
costato e del braccio destro, aperte e doloranti fino al mese di
giugno. Il giorno del Corpus Domini si rinnovò il dolore alle piaghe
con una nuova effusione di sangue dalle medesime che infine si
rimarginavano perfettamente ».
Vedi al riguardo in appendice le
relazioni dei medici. Abbiamo già sottolineato che la santità sta nel
compiere la volontà del Signore, nell'esercizio della carità: l'amore,
la dedizione di tutto se stesso a Dio e al prossimo.
I fenomeni
sopra accennati in Elena non ostacolarono affatto la sua straordinaria
attività, la normalità della sua vita religiosa; l'espletamento delle
sue funzioni di fondatrice e superiora generale di una nuova
congregazione.
Le sofferenze del venerdí santo, avvenivano, di
consueto, con la assoluta esclusione di ogni curioso; le porte della
casa assolutamente chiuse; al mattino del sabato santo suor Elena era
già, come di consueto, al suo posto di preghiera, di lavoro, di
responsabilità, esternamente come se nulla fosse accaduto.
Quei
fenomeni non le facilitarono certo i rapporti con le autorità
ecclesiastiche. Risultarono talvolta una fonte di dispiaceri e di
umiliazioni.
Ma la gente, nelle sue tribolazioni, accorreva a lei; a lei ci si rivolgeva prima di decisioni importanti.
Chi
chiedeva di lei, per averne l'indirizzo, al nome di Suor Elena o di
Suor Elena Aiello, vedeva per lo piú sul volto dell'interpellato
l'espressione manifesta di chi sente per la prima volta nominare quella
persona; ma bastava aggiungere qualche accenno ai fenomeni suddetti,
come « la suora che suda sangue », per sentirsi rispondere: « Ah! voi
cercate 'a monaca santa », e aveva subito l'indicazione precisa.
E fu questo l'appellativo abituale di Suor Elena.
Guarigione istantanea e completa di Elena (22 maggio 1924)
Diversi
sono stati al riguardo i preannunzi dati da Elena che sarebbe
completamente guarita dal tormentoso male della spalla: cosí in una
lettera del 10 maggio 1924 a Mons. Mauro:
«Rev.do Padre, ieri
verso le ore 3 pomeridiane mi apparve Gesú dicendomi: " Figlia mia
diletta vuoi guarire oppure vuoi soffrire? ". Io gli dissi: " A
soffrire con Voi, Gesú mio, si soffre tanto bene. Ma fate quello che
volete ".
« E Gesú: " Ebbene ti farò guarire, ma sappi che ogni
venerdí, ti farò entrare in tristezza, cosí mi starai piú unita ".
Detto questo scomparve.
« Mi raccomando alle Sue sante preci; umilmente Le bacio la mano. Sua umilissima serva in G.C. Elena Aiello ».
Cosí
al dott. Adolfo Turano, chiamato dai familiari per l'aggravarsi dello
stato dell'inferma, Elena appena qualche giorno prima del 22, rifece il
racconto di una visione avuta da S. Rita, con la indicazione che
l'avrebbe guarita il giorno 22, nel pomeriggio.
Il dottore, date
le condizioni dell'inferma, giudicò espressione di delirio quella
comunicazione! E in tal senso ne parlò ai familiari.
E il 22
maggio, alle 14,45, vestita dalla sorella Emma, fu condotta non senza
fatica al piano sottostante, nel salotto dove era la statua di S. Rita:
venne adagiata su un divano di fronte alla statua. Ecco la narrazione
fatta dalla sorella di Elena, Emma, all'avv. Di Napoli, il 30 ottobre
1961: essa parte dallo stato miserando immediatamente precedente. Elena
con grande forza d'animo, toglieva da sé, aiutandosi con uno specchio e
usando degli stecchini, i vermi che si formavano nella sua piaga alla
spalla.
« E' esatto ciò che vi ha detto la Signora Alina
(Caracciolo, sposata Palazzolo, residente a Verona). Potemmo svelare il
segreto dei vermi per avere Giovannina spiate le mosse di Elena in una
delle sue improvvise sparizioni. Quando assunsi il pietoso compito di
estrarli, usai lo stesso metodo di Elena: lo stecchino. Slabbravo la
pelle che circondava le piaghe profonde e li facevo saltare con lo
stecchino, ma piú ne toglievo, piú ce n'erano! Poi vi deponevo una
polverina gialla che mi avevano indicato, senza nessun risultato.
«
Elena sopportava con rassegnazione quel tormento, ma la sua fede in S.
Rita era incalcolabile. Aveva la certezza di guarire; ma non tutti
potevano credere. Erano tre anni!
« Nella notte del 21 maggio 1924 Elena sognò S. Rita dirle che all'indomani alle 15 l'avrebbe guarita.
«
In quel mese di Maria, come nei precedenti giorni recitavamo il
Rosario; c'erano alcune vicine, e l'assiduo notaio Carlo Taormina, il
quale nutriva verso Elena uno speciale affetto.
« In quell'anno
Elena era estenuata per le forti crisi avute nel mese di aprile.
Dovevamo prendercela in braccio per farla discendere dal piano
superiore, come una moribonda, adagiandola poi in quel divano...,
sistemato avanti la statua di S. Rita.
« Attendemmo.
« Eravamo trepidanti, inquieti, emozionati, ma non sapevamo dire una parola.
«
Recitato il Rosario, a cospetto della statua con lo sportello della
custodia aperto, Elena cominciò a pregare in questi termini, con un fil
di voce:
« " Dal tuo santuario di misericordia, o Santa degli
impossibili e padrona dei casi disperati, rivolgi a me i tuoi occhi
pietosi e guarda le angosce che mi opprimono, le sventure che mi
percuotono, i bisogni che mi stringono; né alcuna via piú mi rimane!
Inaridita è la sorgente delle mie lagrime e la preghiera sta per morire
sulle mie labbra confuse! Mi rimane la speranza!
« O S. Rita, potente e pietosa, soccorrimi in questa estrema necessità, concedimi la grazia ch'io ti domando!
« Tu me l'hai promesso! Mi devi fare la grazia e non devi farmi rimanere bugiarda! ".
« E aiutata da me, si alzò e si accostò alla statua.
«
Avemmo l'impressione che la mano di Santa Rita, protesa verso il
Crocifisso, si fosse scostata per raggiungere la mano del lato offeso
di Elena e sollevargliela in alto, e che una vibrazione scuotesse la
statua e la custodia. Elena, fra la commozione di noi ancora increduli,
ripeté: " Sono guarita! Sono guarita! ". E senza aiuto si mosse
liberamente fino al balcone. Vedendo ad una finestra del palazzo
dirimpetto sporta la moglie del notaio Ceci, sollevando le braccia
esclamò: " Donna Valentina, vedete, sono guarita ".
« Quando le volli vedere la piaga, la trovai chiusa, e vi si scorgeva una cicatrice ».
Nel 2° quaderno leggiamo:
«
Nella notte del 21 maggio 1924 ebbi una visione di S. Rita alla quale
tante volte mi ero rivolta perché mi guarisse, avendo ottemperato al
suo ordine. Che la statua si trovasse ancora in casa mia, ciò non era
da me dipeso. Il mio voto si poteva considerare appagato. Ella
riconfermando la promessa, mi disse che lo avrebbe fatto, ma che le
sofferenze sarebbero perdurate, conchiudendo: " Domani, dopo il
Rosario, vieni vicino alla mia immagine che ti guarisco ".
«
Ansiosa e confortata, verso le tre del pomeriggio, dopo aver recitato
il Rosario con parte delle mie sorelle, con alcune amiche e col
compare, aiutata da Emma mi mossi dal divano e mi avvicinai alla statua.
«
Pregai rivolgendo ad essa il mio sguardo. Ad un tratto mi sentii
leggera e libera nei movimenti. Mi alzai, nella gioia intima che
sentivo, e vedendo gli altri in istato di perplessa commozione, dissi:
" Sono guarita ". Mi spostai e raggiunsi il balcone; e come vidi donna
Valentina Vescillo, istintivamente esclamai, alzando le braccia: " Sono
guarita! Vedete ".
La piaga verminosa non esisteva piú ».
Ancora
a Montalto - Gigia Mazza Riprendiamo il filo dei nostri appunti. Essi
ci portano a Bucita, piccolo borgo tra i castagni, frazione del comune
di San Fili, e non molto distante da Montalto.
Qui, in una
famiglia numerosa, esemplarmente cristiana, troviamo la giovane che
sarà la compagna fedele di Elena, fin dagl'inizi dell'opera, e le
succederà nella direzione di essa.
Gigia Mazza nasceva a Bucita
il 28 ottobre 1892, da Santo, onesto artigiano e da Maria Guccione. Dei
dodici figli, ben quattro fanno parte del glorioso Ordine dei Minimi:
fra
Giovanni (nato il 18 giugno 1888); padre Beniamino (del 20 novembre
1893): emigrato negli Stati Uniti nel 1909, militò nello esercito
americano (1917-1918), in Inghilterra e in Francia; rientrato in Italia
(1920), entrò nell'Ordine di San Francesco di Paola a Genova: fu
ordinato sacerdote, a Roma, il 3 luglio 1927;
padre Francesco
(del 3 novembre 1903): entrò a 12 anni nel convento annesso al
Santuario di Paola; dopo il servizio militare, compí a Roma il corso
filosofico e teologico; ordinato sacerdote nel 1930, fu rettore del
Collegio dei Minimi (allora a piazza Pompei) fino al 1937; quindi a
Paola, dove fu due volte Provinciale (1945-1948 e 1955-1958) ;
padre Arturo (del 7 dicembre 1908), ordinato sacerdote nel 1932.
Tra
i figli della sorella maggiore, Pasqualina (morta nel 1918), sposa
all'artigiano Vincenzo Laganà, due seguirono gli zii nello stesso
Ordine: fra Giovanni (del 1911) e padre Biagio (del 1915); la figliola
Concetta (del 1916) entrò nella congregazione fondata da Suor Elena
(nel 1930): morí nel 1932.
Una famiglia dunque particolarmente devota di San Francesco di Paola.
Soltanto
a 30 anni, nel 1922, Gigia perseguendo il suo desiderio di dedicarsi al
Signore, ottenne dai genitori il permesso di entrare nella
Congregazione delle Suore Riparatrici del S. Cuore, a Napoli; la grande
guerra, prima, e quindi (1918) la morte della sorella Pasqualina, che
lasciava 7 figli in tenera età, avevano fatto rimandare la sua partenza.
Ma
a Napoli, rimase solo pochi mesi (1 gennaio - 4 maggio 1923):
incominciò infatti a sentirsi poco bene, quindi una caduta indusse il
medico a rimandarla a casa, per curarsi e ritemprare la propria salute.
Proprio
nella quaresima di quell'anno, erano incominciati i fenomeni
straordinari di cui abbiamo parlato e a Bucita, come negli altri paesi
della provincia, - e forse ancor piú, data la vicinanza, - si parlava
della Suora di Montalto che seguiva, in modo cosí impressionante, la
passione del Signore. Gigia inoltre, affidata dai familiari alle cure
del Dott. Turano, medico della famiglia Aiello e della stessa Suor
Elena, si recava periodicamente a Montalto, cosí ebbe modo di
informarsi ancora meglio.
Cosí, il venerdí dopo Pasqua,
accompagnata dalla mamma, si recò in casa di Elena; per vederla,
chiederle consiglio circa la propria vocazione, se dovesse ritornare
nel monastero, donde era stata costretta ad uscire, o se il Signore
destinasse diversamente, e infine, per assistere alle sofferenze di cui
aveva sentito parlare; credeva infatti che Elena soffrisse ogni venerdí.
Con
la consueta semplicità, Elena « rispose che col venerdì santo erano
finite le sofferenze e che perciò ci voleva l'anno prossimo, perché
soltanto nei venerdí di quaresima del mese di marzo si verificavano
quei fenomeni. La confortava poi per l'uscita dal Monastero; anche lei
era stata costretta a lasciare, per motivi di salute, la congregazione
dove era andata, e a ritirarsi in famiglia, afflitta da tante
sofferenze ».
E non c'era bisogno che Elena aggiungesse altro su questo punto; quella piaga alla spalla la rendeva quasi deforme.
«
Certo - continuava Elena a conforto di Gigia - se il Signore aveva
permesso questo, lo aveva fatto senz'altro per un fine, e che non
avrebbe mancato di farlo conoscere ».
Confortata da tali parole, Gigia se ne ritornò a casa, animata da viva speranza per il futuro della sua vocazione.
Fu
questo l'inizio dei rapporti che legheranno sempre piú la giovane di
Bucita ed Elena; ritornando a Montalto dal dr. Turano per la cura,
Gigia si recava da Elena, con la quale era ormai solita intrattenersi
confidenzialmente. Nella quaresima del 1924 fu presente ai fenomeni che
abbiamo descritto.
Perdurando la piaga alla spalla, Elena nel
maggio di quell'anno, disse a Gigia di non pensare piú al ritorno a
Napoli presso la Congregazione d'onde era uscita; sarebbe stata suora,
ma per fare con lei stessa un'opera nuova. A Gigia venne spontaneo il
pensiero: « Sta morendo e pensa di istituire un'opera! ». Ed Elena
subito: « Non ti preoccupare, perché Santa Rita il 22 di questo mese,
mi guarirà ». E le diceva che sarebbe andata a passare qualche
settimana di quiete, in casa sua, a Bucita.
Gigia riferí tutto
ai suoi familiari. Una vicina di casa, la signora Angelina Asta in
Ferrari, afflitta da due tumori all'inguine, nel sentire quanto di
Elena veniva narrato, pregò Gigia di interessare Elena del suo caso,
perché le ottenesse con le sue preghiere la guarigione.
Gigia
l'accontentò: accompagnata dal signor Michele Ferrari, sposo
dell'ammalata, e dalla madre di questi, ritornò a Montalto. Elena
accondiscese e diede loro una immaginetta di S. Rita, con alcune foglie
di rosa, ricevute da Cascia, da applicare sulla parte ammalata. Sulla
via del ritorno, Michele Asta con sua madre riassumeva a Gigia le
proprie impressioni: « Abbiamo fatto questo cammino, perdendo il nostro
tempo ».
Erano rimasti colpiti dalle condizioni compassionevoli in cui Elena allora versava.
« Un'ammalata in quelle condizioni avrebbe mai potuto guarire gli altri? ».
Comunque,
ritornati a casa, fiduciosi in santa Rita, applicarono sulle parti
sofferenti dell'Angelina 1'immaginetta e le foglie di rosa. Durante la
notte, i due ascessi si ruppero; e al mattino, il prof. Santoro che era
venuto per l'intervento chirurgico, trovò già l'inferma avviata alla
guarigione.
La straordinaria guarigione di Elena (22 maggio)
richiamò di nuovo a Montalto Suor Gigia che la trovò perfettamente
guarita. Elena promise che presto sarebbe andata a trovarla a Bucita.
Difatti in seguito alle lunghe sofferenze della bocca durante i tre
anni di degenza a letto, per il continuo uso di ghiaccio, si era
determinata una forte periostite. Nel mese di novembre successivo non
potendo piú tollerare i forti dolori Elena si decide di andare a
Cosenza dal dentista Chimenti. Lungo la via, per una rottura al camion
nei pressi di Bucita, Elena approfittò per fare una visita a Suor
Gigia. Era la prima volta che Elena visitava la casa di Suor Gigia a
Bucita. Riparato il camion poté raggiungere Cosenza e dal dentista fu
giudicato necessario estrarre tutti i molari.
« Solo cosí
incominciarono a cessare le insopportabili sofferenze che da tanto
tempo l'avevano fatta soffrire. Le fu anche praticata una piccola
operazione di periostite per un dente molare spezzato qualche anno
prima dal medico di Montalto poco competente. Dopo qualche mese,
dovendo ritornare a Cosenza per una seconda visita medica, di nuovo
ebbe occasione di fermarsi a Bucita e nel salutare Suor Gigia disse
alla mamma, zia Maria, che il Signore voleva iniziata un'opera con la
figliuola Suor Gigia e che perciò dovevano consentire di farla partire
con lei per Cosenza.
« La mamma rispose che se era cosí avrebbe
dato il permesso ma se doveva ritornare invece di nuovo in un'altra
Congregazione religiosa non avrebbe avuto piacere, dato che la prova
non era riuscita bene ».