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611. La chiusura del Sepolcro e il ritorno al Cenacolo.

28 marzo 1945. Giuseppe d'Arimatea spegne una delle torce, dà un'ultima occhiata e si avvia all'apertura del sepolcro tenendo accesa e alta la superstite torcia. Maria si china ancora una volta per baciare il Figlio attraverso le sue coperture. E vorrebbe farlo dominando la sua pena, per contenerla in una forma di rispetto al Cadavere che, già imbalsamato, non le appartiene più. Ma, quando è prossima al Volto velato, non si domina più e si abbatte in una nuova crisi di desolazione. La sollevano di là a fatica, la allontanano, con ancora maggiore fatica, dal letto funebre. Ricompongono le tele scomposte e, più portandola di peso che sorreggendola, portano via la povera Madre, che si allontana col volto girato all'indietro, per vedere, per vedere il suo Gesù che resta solo nel buio del sepolcro. Escono nell'ortaglia silenziosa nella luce vespertina. Già la relativa luce, che si è rifatta dopo la tragedia del Golgota, si torna ad incupire per la notte che scende. E là, sotto le ramaglie fitte, per quanto ancora nude di fronde e appena ornate delle bocche bianco-rosa dei meli in boccio, stranamente in ritardo in questo frutteto di Giuseppe, mentre altrove sono già tutti coperti di fiori aperti e anche già fecondati in minuscoli pomi, vi è ancora più penombra che altrove. Viene fatta scorrere la pesante pietra del sepolcro nella sua cunella. Dei lunghi rami di un rosaio scapigliato, che si rovesciano dall'alto della grotta verso il suolo, paiono bussare a quella porta di pietra e dire: «Perché ti chiudi davanti ad una madre che piange?». E paiono piangere anche loro gocce di sangue coi petali rossi che si sfogliano, colle corolle che si adagiano lungo la pietra scura, coi boccioli serrati che battono contro la inesorabile chiusura. Ma presto altro sangue bagna quella porta sepolcrale e altro pianto. Maria, fino allora sorretta da Giovanni e abbastanza quieta nel suo singhiozzare, si svincola dall'apostolo e con un grido, che io credo abbia fatto tremare anche le fibre delle piante, si getta contro la porta, si attacca alla sporgenza di essa per respingerla, si scortica le dita e si spezza le unghie senza riuscirvi, e fa leva fin col capo premuto contro questa sporgenza ruvida. E il suo gemito ha del ruggito di una leonessa che si sveni sulla soglia della trappola dove sono chiusi i suoi nati, pietosa e feroce per amore di madre. Non ha più nulla della mite vergine di Nazaret, della paziente donna fin qui conosciuta. È la madre. Solo e semplicemente la madre, attaccata con tutte le fibre ed i nervi della carne e dell'amore alla sua creatura. È la più vera «padrona» di quella carne che ha generato, l'unica padrona dopo Dio, e non vuole le sia rubata questa sua proprietà. È la «regina» che difende il suo serto: il figlio, il figlio, il figlio. Tutta la ribellione e le ribellioni che in trentatré anni ogni altra donna avrebbe avuto contro l'ingiustizia del mondo verso la sua creatura, tutte le ferocie sante e lecite che ogni altra madre avrebbe avuto durante quelle ultime ore per ferire e uccidere con le mani e coi denti gli assassini del suo nato, tutte queste cose che Ella per amore del genere umano ha sempre domate, ora si agitano nel suo cuore, bollono nel suo sangue e, mite anche nel suo dolore che la fa pazza, Ella non impreca, Ella non si avventa. Ma solo chiede alla pietra che si apra, che le ceda il passo, perché il suo posto è là dentro, dove Egli è. Ma solo chiede agli uomini, impietosi nella loro pietà, di ubbidirle e di aprire. Dopo avere percosso e sanguinato con le labbra e con le mani sulla pietra tenace, si volge, si appoggia a braccia aperte, abbrancando ancora i due orli della pietra, e terribile nella sua maestà di Madre dolorosa ordina: «Aprite! Non volete? Ebbene, io qui resto. Dentro no? Qui fuori, allora. Qui è il mio pane e il mio letto. Qui è la mia dimora. Non ho altre case né altro scopo. Voi andate pure. Tornate nel mondo che è uno schifo. Io resto dove non è bramosia e odor di sangue». «Non puoi, Donna!». «Non puoi, Madre!». «Non puoi, Maria, cara!». E cercano di staccarle le mani dalla pietra, impauriti di quegli occhi, che essi non conoscono ancora con quel bagliore che li fa duri e imperiosi, vitrei, fosforici. La prepotenza non è dei miti, e gli umili non sanno durare nella superbia... E a Maria subito cade la veemenza del volere e l'impero del comandare. Torna ad avere il suo sguardo mite di colomba torturata, perde l'imponenza dell'atto e si curva da capo con atto di supplica, e congiunge le mani pregando: «Oh! mi lasciate! Per i vostri morti, per quelli che amate fra i vivi, pietà di una povera madre!... Sentite... Sentite il mio cuore. Ha bisogno di pace per perdere questo battito crudele. Esso si è messo a battere così lassù, sul Calvario. Il martello faceva ton, ton, ton... e ogni colpo feriva il mio Bambino... e mi picchiava nel cervello e nel cuore... e la testa mi è piena di quei colpi, e il cuore batte veloce così come era quel ton, ton, ton, sulle mani, sui piedi del mio Gesù, del mio piccolo Gesù... Il mio Bambino! Il mio Bambino!...». Le torna tutto il tormento, che pareva calmato dopo la sua preghiera al Padre presso la tavola dell'unzione. Piangono tutti. «Ho bisogno di non sentire urli né urti. E il mondo è pieno di voci e di rumori. Ogni voce mi sembra il "grande grido" che mi ha impietrito il sangue nelle vene, e ogni rumore mi sembra quello del martello sui chiodi. Ho bisogno di non vedere volti d'uomo. E il mondo è pieno di volti... Io sono quasi dodici ore che vedo volti di assassini... Giuda... i carnefici... i sacerdoti... i giudei... Tutti, tutti assassini!... Via! Via... Non voglio più vedere alcuno... In ogni uomo è un lupo e un serpente. Io sento ribrezzo e paura dell'uomo... Lasciatemi qui, sotto questi alberi quieti, su quest'erba fiorita... Fra poco ci saranno le stelle... Esse sono state le sue amiche e le mie amiche sempre... Ieri sera esse hanno fatto compagnia alla nostra solitaria agonia... Esse sanno tante cose... Esse vengono da Dio... Oh! Dio! Dio!...», piange e si inginocchia. «Pace, mio Dio! Non mi resti che Te!». «Vieni, figlia. Dio ti darà pace. Ma vieni. Domani è il sabato pasquale. Non potremmo venire a portarti cibo...». «Niente! Niente! Non voglio cibo! Voglio la mia Creatura! Mi sfamo col mio dolore, mi disseto col mio pianto... Qui... Sentite come piange quell'assiolo? Piange con me, e fra poco piangeranno gli usignoli. E domani, nel sole, piangeranno le calandre e i capineri e tutti gli uccelli che Egli amava, e le tortore verranno con me a battere a questa pietra e a dire, e a dire: "Levati, amor mio, e vieni! Amore che stai nel crepaccio della rupe, nel nascondiglio del dirupo, lasciami vedere il tuo viso, lasciami ascoltare la tua voce". Aaaah! che dico! Anche loro, anche loro, i biechi assassini, me lo hanno interpellato con la parola del Cantico! Sì, venite, o figlie di Gerusalemme, a vedere il vostro Re col diadema onde lo incoronò la sua Patria nel giorno del suo sposalizio con la Morte, nel giorno del suo trionfo di Redentore!». «Guarda, Maria! Sopraggiungono le guardie del Tempio. Vieni via, ché non ti facciano spregio». «Le guardie? Spregio? No. Sono vili. Vili sono. E se io marciassi su loro, terribile nel mio dolore, esse fuggirebbero come Satana davanti a Dio. Ma io mi ricordo di essere Maria... e non le colpirò come ne avrei diritto. Starò buona... non mi vedranno neppure. E, se mi vedranno e mi chiederanno: "Che vuoi?", dirò loro: "L'elemosina di respirare l'aria imbalsamata che esce da questa fessura". Dirò: "In nome di vostra madre". Tutti hanno una madre... l'ha detto anche il ladrone pietoso...». «Ma queste sono peggio dei ladroni. Ti insulteranno». «Oh!... E c'è ancora un insulto che io non conosca, dopo quelli di oggi?». È la Maddalena che trova la ragione capace di piegare la Dolorosa all'ubbidienza. «Tu sei buona, tu santa sei, e credi, e sei forte. Ma noi che siamo?... Tu lo vedi! I più, fuggiti. I superstiti, pavidi. Il dubbio, che è già in noi, ci piegherebbe. Tu sei la Madre. Non hai solo il dovere e il diritto sul Figlio. Ma il dovere e il diritto su ciò che è del Figlio. Tu devi tornare con noi, fra noi, per raccoglierci, per rassicurarci, per infonderci la tua fede. Tu lo hai detto, dopo il tuo giusto rimprovero alla nostra pavidità e miscredenza: "Più facile sarà a Lui il risorgere se libero da queste inutili bende". Io ti dico: "Se noi riusciremo a riunirci nella fede nella sua Risurrezione, più presto Egli risorgerà. Lo evocheremo col nostro amore...". Madre, Madre del mio Salvatore, torna con noi, tu, amore di Dio, per darci questo tuo amore! Vuoi dunque che si perda di nuovo la povera Maria di Magdala, che Egli ha salvato con tanta pietà?». «No. Ne avrei rimprovero. Hai ragione. Devo tornare... cercare gli apostoli... i discepoli... i parenti... tutti... Dire... dire: credete. Dire: Egli vi perdona... A chi l'ho già detto?... Ah! All'Iscariota... Bisognerà... sì, bisognerà cercare anche lui... perché è il più grande peccatore...». Maria resta col capo curvo sul petto, trema come per ribrezzo, e poi dice: «Giovanni, lo cercherai. E me lo porterai. Lo devi fare. E io lo devo fare. Padre, anche questo sia fatto per la redenzione dell'Umanità. Andiamo». Si alza. Escono dall'ortaglia semioscura. Le guardie li guardano uscire senza far motto. La strada, polverosa e sconvolta dalla fiumana di popolo che l'ha percorsa e percossa con piedi e pietre e randelli, fa una curva intorno al Calvario per giungere sulla via maestra, che è parallela alle mura. E qui ancora più intense sono le tracce dell'avvenuto. Due volte Maria ha un grido e si curva studiando nella mal luce il suolo, perché le pare vedere del sangue e pensa sia del suo Gesù. Ma non sono che brandelli di stoffe lacerate nella mischia della fuga, io credo. Il torrentello, che corre lungo la via, mormora piano nel grande silenzio che è da per tutto. Sembra che la città sia abbandonata, tanto da essa non viene che silenzio. Ecco il ponticello che conduce alla erta via del Calvario. E, di fronte a questo, ecco la porta Giudiziaria. Prima di scomparire dentro di quella, Maria si volge a guardare la vetta del Calvario... e piange desolatamente. Poi dice: «Andiamo. Ma conducetemi voi. Io non voglio vedere Gerusalemme, le sue vie, i suoi abitanti». «Si, sì, ma facciamo presto. Stanno per chiudere le porte e, lo vedi?, è rinforzata la guardia ad esse. Roma teme subbugli». «Ne ha ragione. Gerusalemme è un covo di tigri! È una tribù di assassini! È una turba di predoni. E non solo alle sostanze, ma alle vite tendono le zanne rapaci questi usurpatori. Sono trentadue anni che me la insidiano la vita del mio Bambino... Era un agnellino di latte e rosa, un agnellino d’oro riccio... Appena sapeva dire "Mamma", e fare i primi passetti, e ridere coi suoi pochi dentini fra le labbra di pallido corallo, quando sono venuti per sgozzarlo... Ora dicono che aveva bestemmiato, e violato il sabato, ed eccitato alla rivolta, e mirato al trono, e peccato con donne... Ma allora che aveva fatto? Quali bestemmie poteva avere detto se appena sapeva chiamare la Mamma? Che poteva violare della Legge, se Egli, l'eterno Innocente, era allora anche il piccolo innocente dell'uomo? Che rivolta poteva eccitare se neppure sapeva fare un capriccio? A che trono mirare? Il suo trono sulla Terra e nel Cielo Egli lo aveva, e non ne chiedeva altri. In Cielo aveva il seno del Padre, in Terra il mio seno. Mai ha avuto occhi per il senso, e voi, giovani e belle, lo potete dire. Ma allora, ma allora... Il suo senso era limitato al bisogno del tepore e del nutrimento, e amoreggiava, si, ma colla mia tepida mammella, per posargli sopra la faccina e dormire così, e col tondo capezzolo, dal quale il mio amore fluiva in latte... Oh! mia Creatura!... E ti volevano morto! Questo ti volevano levare: la vita! Il tuo unico tesoro. La Madre al Figlio, il Figlio alla Madre, per renderci i più miseri e desolati dell'Universo. Perché levare al Vivo la vita? Perché arrogarvi il diritto di levare questa cosa che è la vita: bene del fiore e dell'animale, bene dell'uomo? Non vi chiedeva nulla il mio Gesù. Non denaro, non gioielli, non case. Una ne aveva, piccola e santa, e l'aveva lasciata per amore di voi, uomini-iene. Quello che ha il piccolo dell'animale, Egli lo aveva rinunciato per voi, ed era andato povero e solo per il mondo, senza più neppure il letto che gli aveva fatto il Giusto, senza neppure più il pane che gli faceva la Mamma, ed aveva dormito là dove aveva potuto ed aveva mangiato come aveva potuto. Nelle case dei buoni, come ogni figlio d'uomo, o sul giaciglio erboso dei prati, vegliato dalle stelle. Seduto ad una mensa, o dividendo con gli uccelli di Dio i chicchi del grano e il frutto del rovo selvatico. E non vi chiedeva nulla. Ma, anzi, vi dava. Voleva solo la vita per darvi con la sua parola la Vita. E voi, e tu, Gerusalemme, della vita lo avete spogliato. Sei sazia e pasciuta del suo Sangue e della sua Carne? O non ti empie ancora? E vuoi, iena dopo vampiro e avvoltoio, pascerti del suo Cadavere e, non ancora satolla di obbrobri e tormenti, ancora vuoi infierire e godere nello sfregiarne le spoglie e rivedere i suoi spasimi, i suoi tremiti, i suoi singulti, le sue convulsioni, in me, nella Madre dell'Ucciso? Siamo giunti? Perché vi fermate? Che vuole quell'uomo da Giuseppe? Che dice?». Infatti Giuseppe è stato fermato da uno dei rari passanti e, nel silenzio assoluto della città deserta, si sentono molto bene le loro parole. «È noto che sei entrato nella casa di Pilato. Profanatore della Legge. Ne renderai conto. La Pasqua t'è interdetta! Sei contaminato». «Anche tu, Elchia. Mi hai toccato e sono tutto coperto del sangue di Cristo e del suo sudore mortale!». «Ah! orrore! Via! Via! Quel sangue, via!». «Non avere paura. Ti ha già abbandonato. E maledetto». «Ma anche tu, maledetto. E non ti pensare, ora che amoreggi con Pilato, di potere sottrarre il Cadavere. Abbiamo provveduto perché il giùoco cessi». Nicodemo si è avvicinato lentamente, mentre le donne si sono fermate con Giovanni, addossandosi ad un fondo portale serrato. «Abbiamo visto», riprende Giuseppe. «Vigliacchi! Avete paura anche di un morto! Ma del mio orto e del mio sepolcro faccio ciò che mi pare». «Lo vedremo». «Lo vedremo. Mi appellerò a Pilato». «Si. Fornica con Roma, ora». Nicodemo si fa avanti: «Meglio con Roma che col Demonio come voi, deicidi! E del resto, mi dici: come mai rimetti penne? Or ora fuggivi in preda al terrore. Già ti sta passando? Non basta ancora quanto avesti? Non è arsa una tua casa? Trema! Non è finito il castigo, ma anzi viene. Come la Nemesi dei pagani, ti incombe. Né guardie né suggelli vieteranno al Vendicatore di sorgere e colpire». «Maledetto!». Elchia fugge e va a urtare contro le donne. Comprende e dice un atroce insulto a Maria. Giovanni non fa parola. Con un balzo di pantera gli si avvinghia e l'atterra e, tenendolo premuto coi ginocchi, le mani intorno al collo, gli dice: «Chiedile perdono o ti strozzo, demonio». E non lo lascia altro che quando l'altro, premuto e mezzo strangolato dalle mani di Giovanni, non arrangola: «Perdono». Ma il suo grido ha attirato la ronda. «Alto là! Che avviene? Altre sedizioni? Fermi tutti o sarete colpiti. Chi siete?». «Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, autorizzati dal Proconsole al seppellimento dell'ucciso Nazzareno, di ritorno dal sepolcro con la Madre, il figlio e le parenti e amiche. Costui ha offeso la Madre e fu obbligato a chiedere perdono». «Quello solo? Dovevate sgozzarlo. Andate. Soldati, arrestate costui. Che altro vogliono questi vampiri? Anche il cuor delle madri? Salve, giudei!». «Che orrore! Ma non sono più uomini... Giovanni, sii buono con loro. Guarda al ricordo del mio e tuo Gesù. Egli predicava perdono». «Madre, hai ragione. Ma sono delinquenti e mi levano di ragione. Sono sacrileghi, offendono te. E non lo posso permettere». «Sono delinquenti, si. E sanno di esserlo. Guarda quanto pochi per le vie. E quei pochi come scantonano furtivi. Dopo il delitto, i delinquenti hanno paura. Vederli fuggire così, entrare nelle case, asserragliarvisi per paura, mi suscita orrore. Li sento tutti colpevoli del Deicidio. Guarda là, Maria, quel vecchio. È già curvo sulla fossa e pure, or che la luce di quella porta che si apre lo illumina, mi pare di averlo visto sfilare accusando il mio Gesù, là, sul Calvario... Lo diceva ladro... Ladro il mio Gesù!... Quel giovane, poco più che un fanciullo, pronunciava sconce bestemmie invocando il Sangue su lui... Oh! infelice! E quell'uomo? Così nerboruto e forte, si sarà astenuto dal colpirlo? Oh! non voglio vedere! Guardate: sui volti che hanno si sovrappone il volto dell'anima e... e non hanno più effigie di uomini, ma di demoni... Tanto erano coraggiosi contro il Legato, il Crocifisso... E ora fuggono, si nascondono, si rinserrano. Hanno paura. Di chi? Di un morto. Per loro non è che un morto, poiché negano che sia Dio. Di che dunque hanno paura? A chi chiudono le porte? Al rimorso. Alla punizione. Non giova. Il rimorso è in voi. E vi seguirà in eterno. E la punizione non è umana. E non servono serrami e bastoni, porte e sbarre contro di essa. Essa scende dal Cielo, da Dio, vendicatore del suo Immolato, e penetra oltre mura e porte, e con la sua fiamma celeste vi marca per il castigo soprannaturale che vi attende. Il mondo verrà al Cristo, al Figliuolo di Dio e mio, verrà a Colui che voi avete trafitto, ma voi sarete in eterno i segnati, i Caini di un Dio, marcati come l'obbrobrio della razza umana. Io che sono nata da voi, io che sono Madre di tutti, devo dire che a me, vostra figlia, voi siete stati più che patrigni e che, nello sterminato numero dei miei figli, voi siete quelli che più mi imponete fatica ad accogliervi, perché siete sozzi del delitto verso la mia Creatura. Né ve ne pentite dicendo: "Eri il Messia. Ti riconosciamo e ti adoriamo". Ecco un'altra ronda romana. L'Amore non è più sulla Terra. La Pace non è più fra gli uomini. E l'Odio e la Guerra si agitano come quelle torce fumose. I dominatori hanno paura della folla scatenata. Sanno per esperienza che, quando quella belva che si chiama uomo ha sentito il sapore del sangue, diviene avida di strage... Ma non temete di questi. Questi non sono leoni né pantere reali. Sono vilissime iene. Si avventano sull'agnello inerme. Ma temono il leone armato di lance e di autorità. Non temete di questi striscianti sciacalli. Il vostro passo ferrato li pone in fuga e il brillare delle vostre lance li fa più miti di conigli. Quelle lance! Una ha aperto il cuore del Figlio mio! Quale fra esse? Vederle mi è freccia al cuore... Eppure vorrei averle tutte fra queste mani che tremano, per vedere quale è quella che ancora ha tracce di sangue, e dire: "È questa! Dammela, o soldato! Dàlla ad una madre in ricordo della tua madre lontana, ed io pregherò per lei e per te". E nessun soldato me la negherebbe. Perché essi, gli uomini di guerra, furono i più buoni davanti all'agonia del Figlio e della Madre. Oh! perché lassù non pensai a questo? Ero come una che ha avuto colpito il capo. Già l'avevo intontito da quei colpi... Oh! quei colpi! Chi mi dà di non sentirli più, qui, nella mia povera testa? La lancia... Come la vorrei!...». «La possiamo cercare, Maria. Il centurione mi parve molto buono con noi. Credo non me la negherà. Andrò domani». «Sì, sì, Giovanni. Sono povera. Non ho che poco denaro. Ma me ne spoglio fino all'ultimo picciolo per avere quel ferro... Oh! come ho potuto non chiederlo allora?». «Maria, cara, nessuno di noi sapeva di quella ferita... Quando la vedesti, i soldati erano lontani». «E’ vero... Sono ebete dal dolore. E le vesti? Non ho nulla di suo! Darei il mio sangue per averle...». Maria piange di nuovo desolatamente. E giunge così nella via dove è il Cenacolo. É tempo, perché è esausta e si trascina proprio come una vecchia cadente. E lo dice. «Fa' cuore. Siamo giunte, ormai». «Giunte? Tanto breve la via che stamane mi parve tanto lunga? Stamane? É stato stamane? Non di più? Quante ore o quanti secoli sono passati da quando vi sono entrata ieri sera e da quando ne sono uscita questa mattina? Sono proprio io, la Madre cinquantenne, o una vegliarda secolare, una donna di più tempi, ricca di secoli sulle spalle curvate e sulla testa canuta? Mi pare di avere vissuto tutto il dolore del mondo e che esso sia tutto sulle mie spalle che piegano sotto il suo peso. Croce incorporea, ma così pesante! Di pietra. Pesante forse più ancora di quella del mio Gesù. Perché io porto la mia e la sua col ricordo del suo strazio e con la realtà del mio strazio. Entriamo. Poiché si deve entrare. Ma non è un conforto. E’ un aumento di dolore. Da questa porta è entrato il Figlio mio per l'ultimo suo pasto. Da questa ne è uscito per andare incontro alla morte. E ha dovuto mettere il suo piede là dove il suo traditore l'aveva messo uscendo per chiamare i catturatori dell'Innocente. Contro quell'uscio ho visto Giuda... Giuda ho visto! E non l'ho maledetto. Ma gli ho parlato da madre straziata. Straziata per il Figlio buono e per il figlio malvagio... Ho visto Giuda! Il Demonio ho visto in lui! Io, che ho sempre tenuto Lucifero sotto il mio calcagno e guardando solo Iddio non ho mai abbassato l'occhio su Satana, ho conosciuto il suo volto guardando il Traditore. Ho parlato col Demonio... Ed esso è fuggito, perché non sopporta la mia voce. L'avrà lasciato ora? In modo che io possa parlare a quel morto e io, la Genitrice, tornare a concepirlo con il Sangue di un Dio per partorirlo alla Grazia? Giovanni, giurami che lo cercherai e che non sarai crudele con lui. Non lo sono io, che pur ne avrei diritto... Oh! Lasciatemi entrare in quella stanza dove il mio Gesù ha preso l'ultimo suo pasto. Dove la voce del mio Bambino ha detto le sue ultime parole in pace!». «Sì. Anderemo. Ma ora, guarda, vieni qui, dove eravamo ieri. Riposa. Saluta Giuseppe e Nicodemo che si ritirano». «Li saluto, sì. Oh! li saluto. Li ringrazio. Li benedico!». «Ma vieni, vieni. Lo farai con più agio». «No. Qui. Giuseppe... Oh! non ho conosciuto alcuno con questo nome che non mi amasse...». Maria d'Alfeo dà in uno scoppio di pianto. «Non piangere... Anche Giuseppe... Era per amore che tuo figlio sbagliava. Voleva darmi umanamente pace... Ma oggi!... Lo hai visto... Oh! tutti i Giuseppe sono buoni con Maria... Giuseppe, io ti dico grazie. E a te, Nicodemo... Il mio cuore si prostra sotto i vostri piedi stanchi per il tanto cammino fatto per Lui... per gli ultimi onori a Lui... Io non ho che il cuore da darvi... e ve lo do, amici leali del Figlio mio... e... e scusate ad una madre trafitta le parole che vi dissi nel sepolcro...». «Oh! Santa! Tu perdona!», dice Nicodemo. «Sta' buona, ora. Riposa nella tua Fede. Domani verremo», aggiunge Giuseppe. «Sì, verremo. Ai tuoi ordini siamo». «E’ sabato domani», obietta la padrona di casa. «Il sabato è morto. Verremo. Addio. Il Signore sia con voi», e se ne vanno. «Vieni, Maria». «Sì, Madre, vieni». «No. Aprite. Me lo avete promesso di farlo dopo i saluti. Aprite questa porta! Non potete chiuderla ad una madre. Ad una madre che cerca di respirare nell'aria l'odore del fiato, del corpo del suo Bambino. Ma non sapete che quel fiato e quel corpo gliel'ho dati io? Io, io che l'ho portato nove mesi, che l'ho partorito, allattato, allevato, curato? Quel fiato è mio! Quell'odore di carne è mio! E il mio, fatto più bello nel mio Gesù. Lasciatemelo sentire ancora una volta». «Ma sì, cara. Domani. Ora sei stanca. Sei ardente di febbre. Non puoi. Stai male». «Sì. Male. Ma è perché ho negli occhi la vista del suo Sangue e nel naso l'odore del suo Corpo piagato. Che io veda la tavola dove si appoggiò vivo e sano, che io senta il profumo del suo corpo giovanile. Aprite! Non me lo seppellite una terza volta! Già me lo avete celato sotto gli aromi e le bende, poi me lo avete serrato sotto la pietra. Ora perché, perché negare ad una Madre di ritrovare l'ultimo vestigio di Lui nell'alito che Egli ha lasciato oltre questa porta? Lasciatemi entrare. Cercherò per terra, sulla tavola, sul sedile, le tracce dei suoi piedi, delle sue mani. E le bacerò, le bacerò sino a consumarmi le labbra. Cercherò... cercherò... Forse troverò un capello del suo capo biondo. Un capello che non sia ingrommato di sangue. Ma lo sapete cosa è un capello del figlio per la sua mamma? Tu, Maria di Cleofa, tu Salome, siete madri. E non capite? Giovanni? Giovanni? Ascoltami. Io ti sono Madre. Egli mi ha fatto tale. Egli! Tu mi devi ubbidienza. Apri! Io ti amo, Giovanni. Ti ho sempre amato perché lo amavi. Ti amerò più ancora. Ma apri. Apri, dico! Non vuoi? Non vuoi? Ah! non ho dunque più figlio!? Gesù non mi ricusava mai nulla. Perché mi era figlio. Tu ricusi. Non sei tale. Non capisci il mio dolore... Oh! Giovanni, perdona... perdona... Apri... Non piangere... Apri... Oh! Gesù! Gesù!... Ascoltami... Il tuo spirito operi un miracolo! Apri alla tua povera Mamma quest'uscio che nessuno vuole aprire! Gesù! Gesù!». Maria bussa con le mani serrate a pugno la porticina ben chiusa. É in un parossismo di strazio. Finché impallidisce e, mormorando: «Oh! mio Gesù! Vengo! Vengo!», si rovescia senza forza fra le braccia delle donne piangenti, che la sorreggono per impedirle di cadere ai piedi di quella porta e la trasportano così nella stanza di fronte.