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73 – SPROFONDATA NEL MIO NULLA


73.1. Vidi Dio sopra il monte


Il dì 11 agosto 1823, giorno che ricorreva la festa di santa Chiara, la mattina nella santa Comunione si raccolse il mio spirito in modo molto particolare; in questo tempo, Dio si degnò darmi un lume chiarissimo di propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia viltà, la mia miseria, i miei gravi peccati, per i quali piangevo amaramente e ne domandavo al mio Dio umile perdono; dando ero tutta sprofondata nel proprio mio nulla e nella mia cattività, non avevo più ardire di alzare la fronte per chiedere di nuovo perdono al mio Dio, mentre credevo in quel momento di essere dalla divina giustizia punita con un fulmine che al momento mi avesse incenerito, perciò, con umile sentimento, ne attendevo il colpo: tanto l’anima si era internata nella propria sua iniquità, che giusto chiamava Dio, che l’avesse a punire e da sé la volesse dividere, e dividere per sempre.

Ma, oh Dio, qual pena provava l’anima in se stessa, al solo pensarlo inorridiva, diceva fra sé: «Dunque io sarò divisa, e da chi? Dall’amato mio bene Dio? E perché? Forse, anima mia, tu vuoi fare questa divisione? Ah no», diceva l’anima, «io no, certo, vorrei piuttosto morire mille volte, che dividermi dall’amato mio bene! No, non sono io, ma è la divina giustizia che mi vuole dividere dal mio Dio».

Rivolta alla divina giustizia così dicevo: «Oh divino attributo del mio Dio, io ti adoro col più profondo rispetto, ti prego a degnarti di sospendere il fatale colpo di divisione, questo lo chiedo per i meriti del mio Redentore»; rivolta all’umanità santissima, dissi: «Ah Gesù mio, fatemi sperimentare gli effetti della paterna vostra misericordia; oh bontà incomprensibile, e chi mai potrà lodarti sufficientemente, né il cielo né la terra potrà al certo renderti le dovute lodi, e chi mai ti potrà comprendere?».

Appena l’anima mia si rivolse ai meriti di Gesù, che il paterno suo cuore, pieno di misericordia, si rivolse verso l’anima mia, mi si fece vedere il mio Dio sopra l’altura del monte, tutto amore e tutta carità, si mostrava fedele amante all’anima e la invitava al suo divino tabernacolo, il quale vedevo in qualche distanza, ma Dio, acceso della sua divina carità, venne ad incontrare l’anima, per dimostrarle il suo affetto e per donargli anticipatamente le disposizioni dovute a sì eccelso favore, qual è quello di entrare nel divino tabernacolo, dove risiedeva Dio, non incognito, ma bensì sfavillante di eterna luce.

Si degnò Dio di farmi intendere le sante disposizioni che donato aveva al mio spirito, per così farlo degno di questo particolare favore. Nell’incontro che fece Dio all’anima, ebria del suo divino amore, le anticipò un amoroso abbraccio, con il quale abbraccio le comunicò molte grazie e doni spirituali; ricevuti l’anima questi doni, in un momento si trasformò in uno spirito più che celeste, mentre mi pareva di essere come divinizzata, provando in me i mirabili effetti del paterno amplesso, che si degnò Dio donare all’anima mia, per il quale restò come divinizzata.

Dio mi diede a vedere questo spirito così bello, così ricco delle sue grazie e dei suoi doni; lo vedevo molto più bello degli stessi angeli, che intorno di questo spirito gli facevano corona, e pieni di ammirazione stavano contemplando l’infinita bontà di Dio, che tanto bello avesse reso questo spirito con la sua divina grazia, ne encomiavano la sua infinita bontà, lodavano la sua divina carità.

73.2. Figli dell’eterno Padre


Lascio per un momento questo racconto, e prendo a parlare di volo, dei sentimenti propri del mio spirito. Mercé la grazia infusagli da Dio, questo conservava in se stesso una umiltà profondissima, benché si vedesse assai più bello che gli angeli stessi, conosceva chiaramente essere questa sua bellezza un gratuito prestito della divina grazia del suo Signore, non dimenticava essere per se stesso un vile giumento, immeritevole affatto di ogni favore; spiegava con sommo rispetto e riverenza i suoi sentimenti al suo divino Signore, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, e con lacrime di tenerezza e di gratitudine, tutta in santi affetti si discioglieva l’anima di puro amore.

Altro non dico, perché il mio dire altro non è che un oscurare la gloria di un Dio, che diede la sua vita per nostro amore e per rendere noi simili a lui, consanguinei ci volle dell’amante Gesù, fratelli suoi ci chiama, partecipi ci fece della sua eterna eredità. Dunque esultiamo di gioia, noi siamo figli dell’eterno, divino Padre. Mio Dio, qual consolazione è questa che inonda il mio cuore, di essere figlia a voi, Dio di eterno amore, di eterna maestà! Adesso comprendo perché tanto mi amate e tante grazie voi mi donate, questi sono gli effetti della paterna vostra bontà, qual figlia mi amate e mi date prova del vostro amore. L’anima mia nella cognizione di queste eterne verità, si umiliava profondamente e ne rendeva le dovute grazie al suo Signore.

73.3. Nel divino tabernacolo


Riprendo il filo del racconto: Dio, di propria mano, introdusse l’anima nel divino tabernacolo, e a sé la unì intimamente e la riempì di gaudio celeste, di amore ardente, che distruggeva la proprietà dell’anima e la medesimava in Dio. Non posso dire di più, ma cosa dirò mai della magnificenza di questo divino tabernacolo? al certo non mi riesce di poterlo manifestare, né tanto poco posso narrare il glorioso ricevimento che ricevette l’anima dall’amante suo Dio, che per l’esuberanza del suo divino amore pareva si fosse dimenticato della sua sovranità per deliziarsi con la povera anima mia.

Altro non dico, perché il savio sapere di vostra paternità reverendissima, intorno a questa divina scienza, molto bene le fa intendere il significato di questi divini favori.

Io non ardisco dire di più, perché sono confusa abbastanza per il rossore che ne provo in me stessa, nello scrivere quanto passa nel mio spirito, questo lo faccio per sola obbedienza, ma mi costa grande ripugnanza, e mi protesto che non intendo in nessuna maniera di dar credito a quanto passa nel mio spirito, ma tutto soggetto col più umile sentimento al savio parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.

73.4. Vidi il passaggio di quest’anima in paradiso


Il dì primo ottobre 1823, essendo passata all’altra vita la figliola di un mio grande benefattore, signor G. S., il dì 30 settembre 1823, molto mi impegnai, da miserabile come sono, nella lunga malattia di detta defunta, acciò il Signore si degnasse salvare quest’anima eternamente.

Molte grazie il Signore si degnò farle nella sua dolorosa infermità, segnatamente di visitarla, per ben quattro volte, per mezzo della santissima Comunione sacramentale, compartendole molta pazienza e rassegnazione al suo divino volere, benché si trovasse di fresca età e gravata di numerosa famiglia di figli otto, di tenera età. Ciò nonostante, chinò il capo alla divina volontà.

Si esercitava in atti di somma pazienza, soffrendo il grave suo male per amore di Dio, facendo molte elemosine in vantaggio dell’anima sua.

Io, da miserabile peccatrice, accompagnavo il suo patire con la continua preghiera, essendo io ogni giorno notiziata dal suo buonissimo padre di tutti i mali che pativa la paziente sua figliola.

Subito che fu spirata la bell’anima, il padre mandò ad avvisarmi che la figlia era passata agli eterni riposi, alle ore tre di notte. E questo fu la notte del dì 30 settembre 1823.

Ricevuta questa nuova, immantinente mi portai al mio oratorio; pregai con molto fervore il mio Dio, acciò si degnasse liberare quest’anima dal purgatorio, avendomi il Signore, per sua bontà, permesso di salvare quest’anima, la quale in principio della sua malattia non si trovava troppo disposta, ma per mezzo delle continue preghiere che si fecero a suo vantaggio, il Signore, per gli infiniti suoi meriti, la dispose a morire santamente.

Proseguo. Fui ispirata dal Signore la mattina seguente, che era il primo di ottobre, di farle celebrare la santa Messa dal mio confessore, applicando alla suddetta il santo sacrificio, ancora la povera mia Comunione in suffragio della suddetta.

Ricevuta che ebbi la santa Comunione, pregai incessantemente il mio sacramentato Signore, acciò si degnasse di presto liberare la suddetta anima dal purgatorio. Al Signore piacque di esaudire la mia preghiera, e per sua infinita bontà, mi promise che il giorno seguente mi avrebbe consolata col condurre quest’anima in cielo, a godere la visione beatifica.

All’ora della Messa cantata, al Libera me, Domine, sarebbe liberata dal purgatorio, per mezzo del suo Angelo custode, nel qual giorno ricorreva la festa. Il mio Dio mi fece ben conoscere che questa era una grazia ben grande che mi faceva, di tanto abbreviare il tempo alle sue misericordie, mentre la suddetta anima doveva, per la divina giustizia, ritenersi in purgatorio per lungo spazio di tempo, ma essendo figlia di un mio benefattore, attesa la promessa fattami, mi compartiva, per sua bontà, la grazia.

Quali e quanti fossero i miei ringraziamenti non so dirlo, piangevo di tenerezza nel vedermi favorita dal mio Dio, confessandomi indegnissima di ricevere le sue grazie.

La mattina dei santi Angeli custodi, 2 ottobre, ricevetti la santa Comunione, applicandola in suffragio della suddetta anima. Quando stavo ascoltando la quinta Messa, improvvisamente si raccolse intimamente il mio spirito. In questo tempo vidi il felice passaggio di quest’anima benedetta al paradiso, accompagnata dal suo santo Angelo custode. Vidi ancora una moltitudine di Angeli che vennero ad incontrarla, con grande festa ed applauso la condussero nell’altezza dei cieli, e in un baleno disparve la celeste visione, restando nel mio cuore un gaudio di paradiso e tanto di celeste consolazione nell’anima, che mi tenne assorta in Dio tutta la giornata e buona parte della notte.

La notte del 4 ottobre 1823 stavo nel mio oratorio orando, quando, per mezzo di una interna illustrazione, Dio si degnò chiamare il mio spirito, e conducendolo con lui gli fece scorrere le sue divine magnificenze, gli fece penetrare la sua potenza nel creare tutto il mondo sensibile, condusse il mio spirito nell’altezza dei cieli, e mi fece penetrare la luna, le stelle, il firmamento, mi fece penetrare il sole, i suoi pianeti e tante altre belle cose celesti, che io non so dire. Con tono maestoso e bello diceva Dio all’anima mia: «Vedi, queste sono opere fatte dalla mia onnipotente mano, in un momento le feci: Ipse dixit et facta sunt».

Questo parlare di Dio con l’anima non era con parole sensibili, ma in una maniera che io non so spiegare.

73.5. Un Dio che soffre per l’uomo ingrato!


Proseguo: mi fece Dio scorrere tutti questi vastissimi luoghi con tanta agilità, penetrazione e sottigliezza, che mi pare di poter dire così: il mio spirito, unito al suo Dio, ha penetrato il sole, la luna, le stelle e il firmamento tutto, con altre magnificenze celesti, create dall’onnipotente mano di Dio, che io non so spiegare. Questi milioni di miglia le fece il mio spirito in breve spazio di tempo, conducendo Dio il mio spirito con lui, con tanta velocità e agilità, trasportandomi da un luogo all’altro senza la minima confusione, ma con somma placidezza, di maniera tale che con ponderata intelligenza tutto vedevo e tutto conoscevo: l’infinita potenza, l’infinita sapienza, l’infinita bontà di Dio.

L’anima mia restò estatica nel vedere tante magnificenze. Non posso al certo narrare cosa alcuna di quanto vidi, mancandomi la maniera di parlare di tante stupende cose, né tampoco posso ridire qual fosse lo stupore e la grande ammirazione del mio spirito, nel vedere tanta grandezza e tanta magnificenza, mancandomi l’intelletto per comprendere le tante belle cose che vedevo e conoscevo.

Mi servo di una similitudine, sebbene molto languida, per potermi spiegare, e dico così: come quando si fissa lo sguardo nel vasto oceano, che più la vista è acuta tanto più si vede grande, ma non si può arrivare a vedere il suo fine, il suo termine, per la vastità che esso contiene, in simil guisa, ma senza paragone, è quanto ho detto assai maggiore e senza fine e senza termine fu quanto Dio si degnò farmi intendere. Questa similitudine è molto languida, e non esprime le magnificenze che Dio si degnò manifestare alla povera anima mia, la quale si saziava, si perdeva in quelle bellissime opere, fatte dalla divina mano onnipotente di Dio.

Dopo aver contemplato tutte queste grandezze, Dio condusse con lui il mio spirito a contemplare la sua passione e morte, mi fece scorrere tutta la sua vita fin dalla sua nascita, per così darmi ad intendere quanto è grande l’amore che porta a noi miseri mortali. Oh che tratto d’amore è mai questo: un Dio patire per l’uomo ingrato, ah non è al certo penetrabile!

Potei, per la grazia infusami dell’amoroso mio Dio, penetrare i cieli, il sole, la luna, le stelle e quanto altro di grande e di raro e di bello Dio diede a vedere al mio spirito, ma l’amore grande che è racchiuso nella vita, passione e morte di Gesù Cristo, salvatore nostro, vero Dio e vero uomo, non potei certamente comprenderlo, perché il suo infinito amore, mostratoci nell’incarnazione del Verbo, è un’opera tanto grande, che la mente umana non può comprenderlo, oltrepassando ogni intelligenza angelica.

La povera anima mia, chiamata da Dio a penetrare l’eccesso del suo infinito amore, contenuto in questo vastissimo mistero, restò tanto preoccupata per l’altezza e magnificenza di sì alto e profondo mistero, che si perdette in quella vastità, e per la piena dei santi affetti, che Dio mi comunicò, credevo veramente di perdere la vita nell’immersione vastissima di questo incomprensibile mistero, con trasporto d’amore non posso fare a meno di esclamare: oh opera immensa di amore! oh eccesso incomprensibile di carità, che la sola intelligenza divina ti può comprendere! La mia mente, nonostante la tua particolar grazia, Dio mio, altro non può fare che ammirare l’eccesso infinito dell’immensa tua carità e di compiacermi e rallegrarmi in te, Dio mio, Signore mio, amor mio, eterna mia felicità, possessore di ogni incomprensibile perfezione e bontà. Anzi, Dio mio, tu sei la stessa perfezione e bontà infinita, dunque te solo amo, te solo adoro, te solo desidero godere per tutta l’interminabile eternità.

73.6. Il mio corpo… dondolava


Quando tornai nei propri sensi, trovai il mio corpo che balzava da terra, e per la sua leggerezza faceva come fa una corda appesa nell’alto, che avendo un peso legato al fine di essa, essendo questa alta da terra, si vede dondolare all’urto di una leggera mano che la percuota, in simile guisa trovai che faceva il mio corpo, e per un buon spazio di tempo dovetti soffrire nel corpo questo dondolamento, senza poterlo fermare; questo moto, però, non alterava il mio spirito, che proseguiva a godere la dolcezza e la soavità di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato a larga copia, di quel bene ne godetti per molti giorni, perché restò sopito in Dio il mio spirito.

73.7. Sempre sul monte santo


Digressione: quando dico che il mio spirito è andato scorrendo le campagne, le amene colline, non si è mai per questo dipartito dal monte santo, dove Dio, nello scorso tempo, si degnò condurre l’anima mia di propria sua mano, come ho detto nei passati fogli, essendo queste amene colline e vaste campagne unite e congiunte al medesimo monte santo. L’anima mia ha sempre proseguito il suo viaggio alla sommità di quel monte; ma, di tratto in tratto, Dio si degna condurre l’anima ora sopra le amene colline ora nei vasti e deliziosi campi di questo vastissimo monte, per ricrearla dalla fatica, e per facilitarle il disastroso cammino, per mezzo dei suoi divini favori, ammaestrandola delle celestiali dottrine, con la sua divina sapienza fa sì che l’anima si trasformi da terrestre in celeste, voglio dire che quest’anima, dimentica di tutto il sensibile, non attende che al suo Dio, per amarlo e servirlo con tutta l’ampiezza del suo povero cuore, con tutta l’estensione dell’anima e delle sue forze, donando cento e mille volte la sua volontà al suo Dio, lo prega con trasporto d’amore e somma compiacenza a farsi padrone della sua volontà, tiene per sommo onore che Dio la regoli, la guidi secondo il suo divino beneplacito. In una parola, la povera anima mia si compiace di vivere senza volontà per fare quella del mio Dio, unico e vero bene dell’anima mia, questo lo faccio per quanto valgano le povere mie forze, e per quanto me lo permette la mia grande imperfezione, non lasciando io di essere la più vile ed imperfetta creatura che abita la terra, nonostante i favori che si degna compartirmi Dio, per la sua infinita bontà e misericordia.

73.8. Il mio angelo custode


Il dì 18 ottobre 1823, trovandomi al paese di Marino stavo in orazioni, quando ad un tratto il mio Dio sollevò il mio spirito ad una celeste visione, mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna di soavità ripiena; vedevo da quelle amene colline che la circondavano, scendere una moltitudine di santi angeli, i quali festosi venivano a congratularsi con l’anima, per vederla in questo sacro luogo. Queste schiere angeliche mi facevano di intorno corona. Ma bisogna premettere, a mia confusione, che Dio nel condurmi in questo luogo aveva comunicato all’anima mia un celeste splendore, che illuminava tutta quella vasta campagna, la quale risplendeva come risplende il sole nel suo meriggio. Queste schiere angeliche erano tutte accorse all’inaspettato chiarore, e riconoscendo in questa anima l’opera del Signore si congratulavano con lei, lodando e benedicendo l’increata sapienza.

La povera anima era ripiena di confusione e di rossore, per il sentimento, che mi aveva comunicato il mio Dio, di propria cognizione, mi umiliavo fino al profondo cupo abisso del mio nulla, e pregavo quegli angelici spiriti a lodare e ringraziare il mio Dio per me. Fra questi celesti spiriti mi si dava a conoscere il mio angelo custode, il quale vedevo assai più bello di tutti i suoi compagni. Non posso al certo spiegare con qual tenerezza, rispetto e venerazione la povera anima mia ossequiò il suo santo angelo, oh con quanto affetto lo ringraziò di tanti aiuti, di tante grazie, di tanta assistenza che mi ha prestato nel custodirmi. Gli domandai mille volte perdono di tanti disgusti che gli ho dato, in tutto il decorso della mia vita, lo pregai ad aiutarmi e custodirmi, gli promisi di essere fedele al mio Dio, per mezzo della sua divina grazia.

Questo mio santo angelo custode conoscevo essere un angelo delle alte gerarchie degli angeli, di quelli che sono assistenti all’augusto trono di Dio, i quali meritano maggior rispetto e stima. La povera anima mia molto ringraziava il Signore per avergli dato per custode questo inclito personaggio.

Come già dissi, l’anima mia la vedevo sotto il simbolo di leggiadra donzella, cinta di celeste splendore, né la bellezza né il celestiale splendore toglieva all’anima il lume di propria cognizione, che il mio Dio mi aveva donato, anzi, il celeste splendore annientava l’anima nel profondo del proprio suo nulla, e tutto questo bene che vedeva in sé, lo attribuiva giustamente all’infinita bontà di Dio, che sol trionfare nelle più vili sue creature.

73.9. L’anima rapita in Dio


Camminava dunque l’anima mia nel profondo della santa umiltà, quando quei celesti spiriti additarono all’anima il divino tabernacolo, che posto era sopra un altissimo monte, a questa notizia l’anima frettolosa là diresse il suo passo, portata da santi affetti, volando e non camminando si trovò l’anima vicino al divino tabernacolo, dove risiedeva il mio Dio: non posso al certo spiegare di qual tempra fossero i santi affetti e i santi desideri dell’anima, prodotti dal santo e divino amore di Dio.

Alla porta del sacro tabernacolo vi erano due incliti personaggi riccamente vestiti, la loro maestà e bellezza destava nel mio cuore venerazione e rispetto; questi due grandi principi, vedendo l’anima mia accompagnata da quella moltitudine di spiriti celesti, segnatamente dal mio santo angelo custode, che fra tutti quei beati spiriti si distingueva per la sua sovrana bellezza, per essere della gerarchia maggiore. I due principi custodi del divino tabernacolo si degnarono introdurre nel divino tabernacolo la povera anima mia. Cosa dirò mai, se mi manca la lena di proseguire il racconto? Ma la santa obbedienza mi obbliga di manifestare, alla meglio che so e posso, quanto segue nel mio spirito. Dunque, a maggior gloria di Dio, proseguo il racconto con i soliti rozzi miei termini.

La povera anima mia ebbe la sorte di adorare Dio in spirito e verità. Introdotta che fui in quel sacrosanto tabernacolo, l’anima fu rapita in Dio: tante furono le bellissime cose che vidi, tante furono le belle cose che comprese il mio spirito, per mezzo di particolare cognizione e intelligenza, che non so né posso esprimerle né ridirle, tanta fu la piena dell’illustrazione divina, che l’anima restò assorbita, medesimata in Dio.

Non ho al certo termini di spiegare con qual tenerezza di affetto Dio si degnò trattare la povera anima mia, in questo divino suo tabernacolo, non è possibile al certo di manifestarlo.

Di santo orrore era ripieno il mio cuore, fisso tenevo nella mente la mia ingratitudine, la mia infedeltà. In mezzo a tanto bene, la contrizione, il dolore di avere tanto offeso il mio Dio mi crucciava il cuore; l’amore di corrispondenza e la gratitudine da un’altra parte mi struggeva, mi si stemperava il cuore, e con lacrime abbondantissime di dolore e di gratitudine, in questa guisa si liquefaceva il mio spirito. Dio si compiaceva di vedermi in quello stato ridotta per amor suo, a sé univa l’anima intimamente, abbracciandola la stringeva al castissimo suo seno, imprimendo nell’anima affettuosi baci. Oh mia grande confusione! devo aggiungere anche di più, il mio buonissimo Dio poi si degnò di invitare la peccatrice anima mia a fare con lui il simile contraccambio.

A questo invito cresceva a dismisura il sacro orrore dell’anima, e restava fuori di se stessa per lo stupore, e viepiù si accresceva in me il lume della propria cognizione, che mi umiliava profondamente, in maniera tale che non saprei bilanciare se sia più il godere di questi divini favori o la pena che si soffre nel conoscersi immeritevole di queste grazie; la santa umiltà che Dio comparte all’anima mia in questi casi è tanto grande, che l’anima si profonda sotto i piedi degli stessi demoni, benché anche si veda favorita dall’amoroso suo Dio, perché giustamente conosce che questo non è che un tratto purissimo della sua infinita carità.

73.10. Datemi i vostri cuori per amarvi


Il dì primo novembre 1823, festa di tutti i Santi, a maggior gloria di Dio e a mia confusione, scrivo il favore che ricevetti dall’infinita bontà di Dio.

Nei giorni antecedenti a questa festività, con preghiere e lacrime chiedevo, con grandi istanze, il santo amore di Dio, e lo chiedevo per intercessione di tutti i santi che sono in cielo; e per ottenerlo mi rivolgevo alla Madre del santo amore, Maria santissima, e al suo divino figliolo Gesù: «Madre mia», dicevo, «caro mio Gesù, datemi i vostri cuori, per amarvi!».

Questa preghiera la feci per molti giorni, con molto fervore e grande istanza, con lacrime e penitenza, per quanto la santa obbedienza me lo permetteva.

La mattina suddetta, tutto ad un tratto si concentrò il mio spirito in Dio. In questo tempo mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna, mi trovai circondata da molti celesti spiriti, i quali invitavano l’anima mia a lodare e benedire l’eterno Dio. L’anima, con profondo rispetto, si unì a quei beati spiriti, e adorò e benedì l’eterna maestà di Dio. Poi mi condussero con loro sopra un altissimo monte, dove io vedevo il mio Dio, che assiso se ne stava nella sua gloria, come riposando, compiacendosi nel suo medesimo splendore. Si degnò invitare la povera anima mia ad approssimarsi a lui.

L’anima, piena di confusione, confessava di essere indegnissima, si copriva di rossore e di santo timore insieme; sbalordita resta l’anima per il divino suo splendore; per questa cagione ricusò il paterno invito. Il mio Dio non si offese per questo, ma, compatendo il mio smarrimento, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, il mio splendore ti abbaglia la vista, ti riempie il cuore di santo timore, perciò non ardisci di avvicinarti, hai ragione! ma io per tuo amore oscurerò il mio splendore».

In questo tempo mi si diede a vedere il mio Dio, sotto un’altra forma, e così la povera anima poté a lui avvicinarsi, conservando nel mio cuore il dovuto rispetto e la dovuta stima alla sua divina maestà.

Ricevette l’anima doni e grazie per il suo profitto spirituale, segnatamente il lume di propria cognizione e contrizione dei propri peccati, santo fervore, come ancora si degnò Dio, per sua bontà, alle povere mie preghiere di liberare un grande numero di anime del purgatorio, per le quali incessantemente pregavo in quei santi giorni, in cui ricorreva il loro anniversario. Si degnava il mio Dio di farmele vedere come a schiere a schiere, per mezzo dei loro santi angeli custodi, si compiaceva di introdurle alla celeste magione, per renderle beate per tutta l’interminabile eternità.

L’anima godeva, per questo bel trionfo della divina misericordia, una dolcezza di paradiso, ma da un’altra parte sentiva una santa invidia per la loro sorte, sicché il contento mi si convertiva in pena.

Il dì 10 novembre ritornai dal paese di Marino in Roma, dopo essermi trattenuta 25 giorni, nei quali feci giorni 20 di santi esercizi e di santo ritiro.

73.11. La nave della Chiesa


Il dì 10 gennaio 1824 l’anima fu ammessa a parlare familiarmente con il suo Dio, trattenendosi per sua infinita bontà a parlare con la povera anima delle presenti circostanze della nostra santa religione cattolica e della santa Chiesa.

L’anima mia così pregava il suo Dio per i presenti bisogni della santa Chiesa: «Mio Dio», diceva l’anima, «quando sarà che io vi veda da tutti gli uomini onorato e glorificato come conviene? Ma, oh mio Dio, quanto sono pochi quelli che vi amano! oh quanto è mai grande il numero di quelli che vi disprezzano, mio Dio, che grande pena è questa per me! Credevo con questa nuova elezione di pontefice si fosse rinnovata la santa Chiesa, e che il Cristianesimo avesse a mutare costume; ma, per quanto vedo, camminano ancora nello stesso piede».

A questo mio affannoso parlare, Dio così mi rispose: «Figlia, non ti ricordi che io ti dissi che la nave era la stessa e che poco gioverebbe ai naviganti di questa nave l’aver cambiato il pilota?».

L’anima: «Ah sì, mio Dio, mi ricordo che, tre giorni dopo l’elezione di questo sommo pontefice Leone, mi faceste bene intendere che la serie delle persecuzioni non era per terminare. Mio Dio, se la nave sarà sempre la stessa, noi andremo sempre soggetti agli stessi mali! Ah Signore, metteteci riparo voi, fate una nave nuova, che ci conduca tutti al porto della beata eternità del paradiso! Sì, mio Dio, vi chiedo questa grazia, deh non me la negate, per i vostri infiniti meriti, mi avete promesso di esaudire le povere mie preghiere, deh, per vostra bontà, ascoltatemi dunque, che io vi prego per tutto il Cristianesimo: rimetteteci sul buon sentiero, ve ne prego, ve ne supplico, per il vostro sangue preziosissimo; deh fabbricate la nave di nostra sicurezza!».

Così mi intesi rispondere: «Figlia, prima di costruire questa nave, si devono recidere cinque alberi che sono in terra sopra le loro radici».

A questo parlare, l’anima mia molto si rattristò, pensando che vi fosse un lunghissimo tempo per formare questa nave. «Dunque», dicevo piangendo, «non basteranno due secoli per fabbricare questa nave! Mio Dio, che pena è questa per me, se Noè mise cento anni per fabbricare l’Arca, voi dunque, mio Dio, proseguirete ad essere offeso per tanto spazio di tempo? Io non ci posso pensare, mi sento venir meno dal dolore. Gesù mio, levatemi la vita, mentre non reggo a vedervi tanto offeso».

Piangevo dirottamente ed ero sopraffatta da grande afflizione di spirito; nel tempo che stavo in questa afflittiva situazione, così intesi parlarmi: «Rasserena il tuo spirito, rasciuga pure le tue lacrime. Sappi che questo non è un lavoro terrestre, come quello di Noè, ma un lavoro celeste, mentre i fabbricatori di questa nave sono i miei angeli. Rallègrati, o mia diletta figlia, e non ti rattristare! Il tempo è nelle mie mani, posso abbreviarlo quanto mi piace, prega, non ti stancare, non sarà tanto lungo quanto tu pensi».

L’anima così rispose: «Quanto mi rallegrate, mio Dio, col farmi sapere che vi compiacerete di abbreviare il tempo alle vostre misericordie, venga presto questo tempo benedetto, o mio Signore, che da tutti siate conosciuto, amato e adorato come conviene».

73.12. Il significato dei cinque smisurati alberi


Intanto il mio spirito in un baleno fu condotto a vedere il grande arsenale, dove vedeva molti santi angeli, che erano tutti intenti a dare di mano a questa grande opera; vi erano nel grande arsenale molti legni da costruzione, come ancora gli ordigni per costruire la detta nave, altri legni di costruzione vedevo fuori dell’arsenale allo scampagnato di una grande macchia, fui condotta poi nell’interno di detta macchia, dove mi furono additati i cinque alberi di smisurata grandezza. Osservai che questi cinque alberi con le loro radici alimentavano e producevano un foltissimo bosco di milioni di piante sterili e selvatiche, alla rimembranza di queste, non potei contenere le lacrime, restai attonita e piena di afflizione mi raccomandavo ai santi angeli, acciò disbrigassero la grande opera che gli aveva commessa il Signore.

Comunicai il suddetto fatto al mio padre spirituale, il quale in quel momento niente mi rispose su di ciò, ma il giorno appresso mi disse: «Pregate il Signore, acciò si degni farvi intendere il significato di quei cinque smisurati alberi che vi ha fatto vedere».

Puntualmente obbedii, e pregai il Signore a manifestarmi il significato di quei cinque smisurati alberi; si raccolse il mio spirito in Dio, e in quel tempo feci l’umile petizione al mio Dio, mostrandogli l’obbedienza che mi aveva imposto il mio padre spirituale. Dio, per sua infinita bontà, ricondusse il mio spirito in quella foltissima macchia, dove tornai a vedere i sopraddetti alberi di smisurata grandezza. Per mezzo di intellettuale intelligenza mi si fece intendere essere in questi smisurati alberi denotate le cinque eresie che infettano il mondo in questi nostri tempi, eresie che si oppongono del tutto al nostro santo Evangelo, e ne cercano la propria distruzione, queste maligne piante con le loro venefiche radici davano alimento a tutte quelle piante, che si trovavano in quella foltissima macchia, che altro non vedevo che alberi secchi e sterili.