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72 – CONGIUNTA CON L’ETERNO BENE
72.1. Il cammino fatto in poco tempo
Riporto
quanto mi seguì nello spirito il dì 19 marzo 1823, festa del glorioso
patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione era il mio cuore pieno
di tristezza e timore, era tutto intento il mio spirito a considerare
la propria sua miseria, la propria sua viltà, era tutto annientato in
se stesso, si umiliava profondamente dinanzi al suo Dio, spargendo
lacrime di compassione, si presentava al suo Signore, mostrandogli la
propria viltà e miseria, quando Dio, per sua bontà, sollevò l’anima mia
da questo grande inviluppo in cui giaceva, e le tornò a mostrare quel
monte, e le diede a vedere quanto cammino ella aveva fatto in poco
tempo, per mezzo della sua santa grazia.
L’anima stupì nel
vedere che tanto aveva camminato, perché mi credeva di non avere ancora
dato un passo, vidi dunque l’anima mia che aveva di già scorso l’aspra
strada del monte e si era inoltrata in quella altura, avendo già fatto
molte miglia di quella strada, vedeva di aver fatta la più malagevole,
nel vedere che in tanto poco tempo aveva fatto un sì lungo e disastroso
viaggio. Mi rallegravo nel Signore e prendevo un poco di coraggio e ne
rendevo i più umili ringraziamenti al Signore, ma restavo attonita e
confusa, perché conoscevo di non aver fatto niente per amore di Dio,
anzi dovevo confessare di essermi portata malissimo e di aver commesso
delle mancanze e difetti, di essere stata ingratissima a Dio: piangevo
dunque la mia ingratitudine e la mia stoltezza e ne domandavo umilmente
perdono al mio buon Dio, il quale prese a consolarmi con dolci ed
amorose parole e per assicurarmi che l’anima mia godeva la sua
particolar grazia; me la diede a vedere sotto l’immagine di leggiadra
donzella, tutta vestita di candidissime e risplendentissime vesti,
sopra le quali portava un adornamento di colore rosso, ma tanto bello
che io ne restavo ammirata e piena di stupore nel vedere adornamento sì
bello e maestoso, vedevo poi che Dio prendeva per sua bontà tanta
compiacenza in questo puro spirito, così riccamente adornato della sua
divina grazia, che l’univa a sé in un modo molto particolare e santo.
L’anima intanto godeva in se stessa un bene così puro e perfetto, che
in quei felici momenti mi pareva di godere l’eterna beatitudine, tanto
l’anima mia era stretta, unita e congiunta con l’eterno suo bene Dio.
Questo distinto favore mi tenne assorta in Dio per lo spazio di tre
giorni, che poco e niente capivo le cose sensibili, nelle orazioni e
nella santa Comunione restava il mio spirito tanto unito e stretto con
il suo Dio, che l’anima mia non distingueva più di abitare in questo
mondo sensibile; ero sopraffatta da un profondo e dolce riposo che mi
faceva dimenticare le cose tutte della terra.
72.2. Nell’interno del monte
Passati i detti tre giorni, cioè dal dì 19 al 22 marzo 1823, in questa situazione.
Il
dì 23 detto, domenica delle palme, nella santa Comunione l’anima fu
invitata dal Signore a camminare una strada interna del riferito monte,
sicché l’anima per qualche spazio di tempo non camminò al di fuori del
monte, ma dentro, all’interno del detto monte. Alla meglio che posso mi
spiegherò: questo monte non è di terra pieno, ma è nell’interno vuoto,
e vi è la sua strada, ma ardua e scoscesa, che senza un aiuto speciale
di Dio non si può al certo salire; questo monte è di pietra durissima,
la strada interna è molto recondita ed occulta, solo a Dio è palese, ed
è padrone di condurci quelle anime che a lui piace, per pura sua bontà,
senza cercare il merito proprio delle anime, per essere questo dono
gratuito della sua infinita liberalità, perché se non fosse così,
l’anima mia peccatrice non potrebbe al certo trovarsi in questo santo
monte; sicché, con ogni verità, possiamo dire che questo è un grande
prodigio dell’infinita bontà di Dio, ed a lui si deve tutto l’onore e
la gloria, e a me si deve la più profonda umiliazione per la mia
cattiva corrispondenza.
Riprendo il filo del racconto, come il
mio Dio mi condusse nell’interna strada del monte, mi apparve Dio per
mezzo di una splendida luce e così mi parlò: «Mia dilettissima figlia,
ti sei riposata per tre giorni, adesso conviene che riprendi il
cammino».
Intanto per mezzo di quella luce fui introdotta
nell’interno del monte; io restai molto sorpresa, non sapendo che
questo monte avesse la strada interna, non poco mi contristai nel
vedere la strada tanto stretta ed angusta ed insieme ripidissima, che
mi sembrava veramente impossibile il poterla salire, ma il mio Dio mi
fece coraggio, promettendomi la sua particolare assistenza; affidata
alle sue promesse, intraprese l’anima il suo cammino. Fino a tanto che
il Signore si degnò, per mezzo di quella luce, trattenersi con me, non
mi avvidi dei disastri della strada ma quando da me si partì, oh Dio,
in quali angustie io mi trovai, solo Dio lo sa; il trattenersi con me
non fu che per poche ore, mi lasciò che non sapevo ancora camminare, mi
lasciò sola e negletta; al buio di quella oscurità, non sapevo dove
mettere il piede, ogni momento mi pareva di precipitare, pregavo,
piangevo, mi raccomandavo, ma tutto invano, perché il mio Dio non mi
ascoltava, anzi viepiù si addensavano in me le folte tenebre, e la
desolazione cresceva a dismisura, ah Gesù mio, Dio mio», dicevo,
riposare nel suo castissimo e purissimo seno, così la povera anima mia
passò ad un tratto dalle tenebre alla luce, dalla fatica ad un dolce
riposo di soavità ripieno; questo riposo fu in me permanente tutte e
tre le feste della santa Pasqua, i buoni effetti restarono in me fino
all’ottava di Pasqua, domenica in Albis, che fu il di 6 aprile 1823.
Passati i suddetti 8 giorni, dovette l’anima proseguire il suo cammino
il quale intraprese con molta agilità e celerità per avere riposato nei
suddetti giorni.
72.3. L’immagine del mio spirito
Il
mio Dio per sua bontà mi fece vedere l’anima mia con che agilità
camminasse, per mezzo della sua divina grazia, i dirupi, le balze di
quella disastrosa e montuosa strada, vidi dunque il mio spirito sotto
forma di leggiadra donzella, il suo portamento era umile, savio e
modesto, portava la sua croce in spalla, con molta attenzione camminava
ed affrettava il suo passo, per compiacere l’amato suo bene, che la
stava mirando per mezzo di un piccolo finestrino, che stava nell’altura
del detto monte.
Era il piccolo finestrino di tersissimo
cristallo, da dove Dio tramandava un raggio della sua divina luce, così
veniva ad illustrare la mia mente di santi pensieri, di santi desideri,
che riempivano il mio cuore di santo amore e di santo fervore, e così
poteva con agilità camminare la povera anima mia e portare la sua croce
in spalla, senza sentirne il peso, la portava tanto bene equilibrata,
che faceva piacere il vederla scorta da quella divina luce che la
rendeva tanto bella che pareva un angelo e non un’anima peccatrice come
sono io.
In realtà questa vista destò in me molta afflizione,
umiliazione e pianto, perché non trovavo in me quel bene che scorgevo
in quello spirito.
Dicevo fra me stessa: «Io sono una grande
superba e in questo spirito che mi si dimostra io altro non vedo che
umiltà, purità e pazienza, in una parola vedo in questo delineate tutte
le sante virtù. Mio Dio», dicevo, «illuminatemi acciò io non vada
ingannata», piangevo, mi raccomandavo incessantemente: «Ah mio Dio»,
dicevo, «io non capisco come va questa cosa, vedo in questo spirito che
voi mi fate vedere, che possiede tante belle virtù e mi dite essere
questo l’immagine del mio spirito, ma io non trovo in me quel bene che
scorgo in esso, anzi trovo tutto l’opposto, io non trovo in me che
miserie e peccati».
Così piangevo e sospiravo. Riferii tutto il
fatto con molte lacrime al mio padre spirituale, e lo pregai di dirmi
se andavo ingannata, per vedermi nelle sante orazioni di raccoglimento
tanto dissimile da quella che sono in realtà.
Il mio padre mi
rispose così: «State quieta, non vi affliggete, perché, grazie al
Signore, non c’è inganno, quello spirito, che voi vedete tanto bello e
virtuoso, vuol significare quello che voi siete mediante la grazia di
Dio e gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Quello poi che voi conoscete
in voi stessa è un’altra grazia molto particolare di Dio, che vi fa
conoscere che per voi stessa non siete altro che miseria e peccati, per
questo è molto ragionevole che vi umiliate profondamente e ringraziate
infinitamente il Signore, che vi fa conoscere la vostra miseria».
Queste
parole furono bastanti a potermi del tutto quietare conoscendo questa
verità chiaramente: che io sono una grande miserabile peccatrice; il
sentimento del mio padre spirituale tanto mi persuase che lasciai di
piangere, dimessi ogni dubbio di essere ingannata, tanta è la fiducia
che il Signore mi dà in questo suo ministro che al suono della sua voce
la povera anima mia si quieta e resta del tutto persuasa e tranquilla,
non solo adesso che sono sedici anni che dirige il mio spirito, ma fino
dal bel principio che si degnò ricevermi per sua figlia spirituale; le
sue parole sono state sempre per me così efficaci, che in tutti i casi
di interni travagli che ho sofferto, mi ha sempre tranquillizzata e
sono sempre tranquilla e contenta.
Tre giorni durò questa vista,
tutte le volte che si raccoglieva nelle sante orazioni il mio spirito,
io, ricordevole di quanto detto mi aveva il mio padre, mi umiliavo
profondamente e dicevo al mio Dio: «Quanto mai siete buono, che ad una
creatura tanto miserabile come sono io, voi fate tanto bene! Vedo
questo mio spirito tanto bello, conosco bene che questo è l’amore che
voi mi portate, mentre in esso vedo delineata la vostra santa grazia,
per voi Gesù mio io sono tanto bella, e per me stessa sono tanto brutta
e deforme, lasciatemi dunque piangere, Gesù mio, che ne ho giusta
ragione, mentre con la mia malizia ho deformato l’anima mia, opera
grande della vostra onnipotente mano. Mio Dio», dicevo, «vi domando
perdono, vi domando pietà, conosco di aver fatto un grande male».
Così
piangevo amaramente tutte le volte che il Signore mi tornava a far
vedere il mio spirito, sicché questa orazione, atteso il consiglio del
mio buon padre, era per me molto fruttuosa, perché terminava con un
grande dolore dei miei peccati, che mi lasciava quasi tramortita, ma
quando ci avevo preso piacere di fare questa sorta di orazione, ben
presto terminò, facendo Dio per altissimi suoi fini passare il mio
spirito ad una penosissima aridità e grave desolazione delle quali darò
riscontro nel quarto cartolare, che copierò dal mio giornale del 1823,
per poi unirli tutti quanti assieme, quando vostra paternità
reverendissima li avrà esaminati. La prego di avvertirmi, per carità,
se sono, queste cose che seguono nel mio spirito, inganni del demonio.
72.4. Lo sguardo fisso verso il finestrino
6
aprile 1823. Cartolare quarto. Riprendo il filo del racconto: passato
che fu il mio spirito nell’anzidetta grave aridità e desolazione, altro
conforto non avevo che tener fisso il mio sguardo in quell’anzidetto
finestrino, da dove, di tratto in tratto, Dio si degnava di mandare i
raggi del suo divino splendore, e così restava illustrata l’anima mia e
confortata da un bene grande, che Dio si degnava comunicarmi, in mezzo
a tanti patimenti, affanni e pene, proseguiva dunque l’anima il suo
cammino nell’interno del monte, non ero per questo malcontenta; benché
fossero grandi le pene che soffrivo ma il divino aiuto, che Dio mi
compartiva, era molto grande, perciò camminavo per l’erto monte, quasi
senza avvedermi del disastroso viaggio.
La mattina del 17 aprile
1823, nella santa Comunione, fui esortata ad affrettare il passo, per
giungere a quel surriferito finestrino, da dove doveva sortire il mio
spirito, per così riprendere il suo viaggio nell’esterno del monte; a
questa cognizione non poco restai sorpresa, e non mi potevo persuadere
come io potessi sortire da quel piccolo finestrino, che non era che un
palmo di altezza e uno di larghezza, mi pareva davvero impossibile; mi
umiliavo per questa difficoltà che insorgeva nella mia mente, e
confessavo la mia ignoranza, assoggettando il mio intelletto ed il mio
corto intendimento all’infinita potenza di Dio, al quale niente gli si
rende impossibile. Nonostante, però, ne attendevo con ammirazione il
successo, difatti la cosa ben presto si avverò. Passati tre giorni dopo
questa esortazione, il mio spirito trapassò il detto finestrino e si
trovò in un batter d’occhi al di fuori del monte, dove mi trovai tutta
circondata da immensa luce; come seguisse il fatto io non lo so, perché
non me ne avvidi, per essere stato come un improvviso rapimento, che
non mi diede luogo né alla cognizione né alla riflessione di quanto
seguiva nell’anima mia per mezzo di questo divino favore, solo posso
dire che fui accesa di un grande amore di Dio, che credevo di perdere
la vita per la piena dei santi affetti, che inondavano il mio cuore, i
quali affetti non potevo contenere per essere molto superiori alle mie
forze, e troppo energici e sublimi al basso mio sentimento e corto mio
intendimento; qual dolce strazio provò il mio cuore non posso al certo
spiegarlo, credevo sicuramente che questa piena di affetti così
esuberanti avessero annegato il mio cuore nel mare immenso della divina
carità.
Tenevo per certo che questo fuoco divino non si sarebbe
in me né estinto né raffreddato, speravo al certo che i buoni effetti
fossero in me permanenti; ma, oh Dio! chi lo crederebbe? questa grande
piena di santi affetti che avevano non solo inondato il mio cuore, ma
lo avevano del tutto annegato, non furono in me permanenti, ma durarono
tanto quanto durò il favore divino, e poi ne restai priva affatto,
sicché in un momento passò il mio spirito dalla luce alle tenebre, e
dalla piena dei santi affetti in una penosissima aridità e gravissima
desolazione; questo improvviso ed inaspettato cambiamento mise in grave
timore il mio spirito, dubitavo di essere abbandonata dal mio Dio,
trovandomi priva del suo divino aiuto, più non sapevo dove mi trovavo,
credevo certo di essere abbandonata dal mio Signore per le tante
ingratitudini da me commesse verso di lui; volevo piangere la mia
sciagura e non potevo, mi volevo raccomandare al mio Dio e non lo
sapevo più fare, cresceva per questo la mia angustia, trovandomi priva
affatto di ogni sentimento e santo affetto, mi pareva di essere una
creatura del tutto insensata; durò questo strazio così crudele per lo
spazio di tre giorni. Tanto era forte questo patimento che il povero
mio spirito non lo poteva più reggere, parevami perire in mezzo a tanti
affanni e pene, mi assicurò di non avermi abbandonata, come io
scioccamente credevo, mi promise ancora, per sua bontà, che non mi
avrebbe giammai abbandonata; qual consolazione, qual gaudio di paradiso
sperimentò il mio cuore a questa consolante nuova, il mio spirito
esultò e, ripreso il suo vigore, ringraziò incessantemente il Signore.
Ma,
o Dio, appena l’anima mia aveva esultato per avere rintracciato l’amato
suo, che sul momento lo tornò a perdere di vista, eccomi dunque di
nuovo afflitta e dolente, per aver perduto l’unico mio bene, quale
affanno, quale pena, quale smarrimento provavo in me stessa, non so al
certo spiegarlo.
Nel tempo di questa grave angustia, mi diede
Dio a vedere il mio spirito, vidi dunque il mio spirito seduto giacente
per terra, per la strada di quel vastissimo monte, stava appoggiato ad
una grande e smisurata pietra, in una positura molto composta e devota,
le mani giunte, gli occhi rivolti verso il cielo, l’aria del mesto suo
volto dimostrava l’affanno del desolato suo cuore, per la cagione di
non vedersi di appresso al suo amato Dio, girava il suo mesto sguardo
or qua, or là, da ogni intorno guardava e non lo ritrovava, mandava
infuocati sospiri ben lontani per ritrovarlo, ma tutto invano, piangevo
amaramente la mia disavventura.
72.5. Vieni appresso a me
In
questo stato di derilizione si trattenne il mio spirito per lo spazio
di 12 giorni, vale a dire dal 21 aprile fino al 3 maggio 1823.
La
notte del 2 maggio mi trattenevo nel mio oratorio orando, quando
improvvisamente da interna voce sento dirmi: «Prepàrati, che domani
devi di nuovo intraprendere il cammino», questa nuova commosse il mio
spirito in affetti santi e devoti, ma molto mi intimorì l’invito, non
sapendo qual arduo viaggio dovessi intraprendere; tutto si concentrò il
mio spirito, umiliandosi profondamente chiedeva aiuto al Signore,
pregandolo a volermi mostrare la strada per dove dovevo camminare,
supponendo di riprendere la mia croce in spalla, per così salire l’erto
monte.
La mattina del 3 maggio 1823, festa dell’Invenzione della
santissima Croce, ricevetti la santa Comunione con sommo raccoglimento
di spirito, passai buone tre ore in questo santo raccoglimento, mai
niente vedevo di quanto la notte antecedente mi era stato promesso, mai
nell’ora quarta della mia orazione ad un tratto si concentrò viepiù il
mio spirito, e tornai di bel nuovo a vedere il mio spirito, giacente
per terra appoggiato alla detta pietra, quando in un momento da mano
invisibile fu il mio spirito levato in piedi, quello che mi recò sommo
stupore fu nel vederlo non più con gli abiti di prima, ma vestito da
pellegrino con lo sbordone in mano, i piedi scalzi, la testa scoperta.
«Mio
Dio», dicevo, «che novità è questa mai? Mio Dio, io sono altamente
confusa! Degnatevi di farmi intendere questo cambiamento, questa
improvvisa mutazione, invece della croce trovo nelle mie mani uno
sbordone, il mio solito abito si è convertito in abito da pellegrino,
che improvvisa mutazione è mai questa? datemi la grazia di
comprenderla».
In tempo che stavo così perplessa né sapevo
consigliare me stessa, ignorando le divine disposizioni, ecco
improvvisamente uno splendore che tutta l’interna vista mi abbagliò e
riempì il mio cuore di celeste dolcezza. «Ah mio Dio, mio Signore»,
esclamai, «ecco ai vostri santissimi piedi la vostra misera serva», ma
interrotte furono le mie parole dalla sua divina presenza; mi si fece
vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, sotto la forma di
pellegrino. «Figlia», mi disse, «ti conviene camminare per questa
foresta. Io ti scorterò, vieni appresso a me».
Il mio spirito
ritroso nell’obbedirlo restò per qualche momento, dubitando di essere
ingannato, ma non ardiva spiegarlo, allora riprese a parlare il nobile
pellegrino e mi disse: «Seguimi pure, non temere di inganno, io sono la
vita, la via e la verità».
A queste parole tramandò dal suo
petto una splendida luce di vita eterna, che mi assicurò non esservi
inganno, ma quello che mi parlava era il divino mio Redentore; a queste
parole, a questo splendore, il mio spirito profondamente si umiliò, e
pieno di ammirazione e di santo timore, con santa fiducia e con sommo
rispetto e riverenza, intrapresi il cammino per la foresta, andando
appresso al divino pellegrino, il quale dopo poco tempo mi si rese
invisibile, lasciando un raggio, di luce per guida al mio spirito;
scortata da questo raggio, feci il mio viaggio con molto profitto,
mercé il divino aiuto. La mia ignoranza non mi permette di spiegare i
santi affetti, i buoni desideri, le celesti illustrazioni, le alte
cognizioni che il mio Dio, per sua bontà, mi comunicò; oh, come in
questo solitario viaggio conoscevo bene la differenza, la diversità che
passa fra i beni transitori di questa misera terra da quei veri beni
eterni che ci promette Dio, per mezzo degli infiniti meriti del nostro
divino Redentore.
Internata l’anima in queste infallibili verità
formava le idee più alte, i sentimenti più puri per poterle
contemplare, gustando in modo molto particolare queste eterne verità,
ad onore e gloria del medesimo Dio e con somma soddisfazione e
consolazione del mio spirito, aborrendo ed odiando i vani e superbi
beni di questa misera terra che non sono che tristezza e afflizione di
spirito.
Il camminare in questo solitario luogo altro non fu che
un disporre il mio spirito a proseguire il suo viaggio al monte santo,
come appresso dirò.
Il divino pellegrino, nell’invitarmi a
camminare presso di lui per quella foresta, mi fece bene intendere che
in questa solitudine dovevo apprendere per via di meditazioni e
riflessioni molte cose appartenenti alla perfezione. In questa
solitudine l’anima mia fu ammaestrata in vari modi, vale a dire, per
cognizione, per illustrazione, per intelligenza. Al mio poco giudizio
mi pare di conoscere che la cognizione, l’illustrazione, l’intelligenza
siano tre gradi di scienza, l’uno diverso dall’altro, come ancora per
gli effetti che ne ho sperimentati nel mio spirito, questi tre gradi di
divina scienza mi pare ancora che siano l’uno maggiore dell’altro;
salva la verità, mentre io mi protesto di essere digiuna affatto di
questa dottrina, per non avere mai letto nessuno di questi libri,
appartenenti a questa scienza, mi servo dunque degli effetti che ne ho
sperimentato in me stessa, per spiegarmi dico così: la cognizione
sollevava l’anima mia verso il suo Dio, e gli faceva conoscere le sue
divine perfezioni molto da vicino, e con molta chiarezza le ravvisava
per immense e incomprensibili che l’anima ne restava ammirata.
L’illustrazione,
poi, infiammava la mia volontà, e così la rendeva innamorata di Dio, in
guisa tale che l’anima uscì fuori di se stessa, per il grande amore che
sente verso l’unico suo vero bene; la divina intelligenza somministra
al mio intelletto i mezzi proporzionati per unirsi con l’amato suo Dio,
nella santa unione poi, molto maggior lume acquista, e così viepiù va
crescendo la fiamma della divina carità. Questo divino fuoco ha preso
in me tanta possanza che mi consuma giorno e notte, che sono ridotta
pelle e ossa, e sono tanto indebolita nelle forze che mi pare ogni
giorno di cessare di vivere, questo pensiero però non mi funesta, ma
riempie il mio cuore di giubilo, mercé la grazia di Dio, in cui ho
posto tutte le mie speranze.
Tutto quello che ho detto e tutto
quello che sono per dire intendo assoggettarlo al savio consiglio e
parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.
72.6. Vidi Dio con le braccia aperte qual Padre amante
Riprendo il filo del racconto: dopo essere stata così favorita dal Signore in quella foresta, come dicemmo.
Il
giorno dell’Ascensione del Signore, che fu il dì 8 maggio 1823, l’anima
mia rintraprese il viaggio al monte santo dove prosegue il suo penoso
viaggio, perché più si inoltra verso la sommità del santo monte, tanto
più si accrescono i travagli e le angustie, andavano sempre più
aumentando i santi desideri di possedere Dio.
L’anima dunque,
così accesa di santo amore, famelica andava in traccia dell’amato suo
bene, desiderando di possederlo e possederlo per sempre. Quali e quante
fossero le brame di questo cuore ferito, io non so al certo dirlo, né
ho termini di dimostrarlo, ma posso dire, per verità, che neppure io
potei comprendere la viva fiamma che mi bruciava il cuore, il forte
incendio del divino amore fa dolce strazio del mio povero cuore, altra
grazia non cercavo al mio buon Dio, che di morire, per così sciogliermi
dai vincoli di questo fragil corpo, così volare liberamente nel
castissimo seno del mio Dio.
Questo ardentissimo desiderio
martirizza l’anima mia giorno e notte, in guisa tale che io non lo
posso più contenere, e sono persuasa mi darà presto la morte, in questi
termini, con questi spasimi al cuore, andava l’anima facendo il suo
viaggio per l’erto monte, portando con sé l’affanno, la pena, il
dolore. Mossosi a compassione, il mio Dio improvvisamente mi si fece
vedere alla sommità del monte, vidi il mio Dio che stava con le braccia
aperte qual padre amante, significandomi l’ardente brama che in sé
conserva di abbracciare la povera anima mia.
Questa vista riempì
il mio cuore di somma consolazione, e di tanta dolcezza e gaudio fu
ripieno il mio spirito, che per godere di quella sola vista, tenni per
bene impiegato tutto quello che avevo patito e faticato nel decorso di
tutta la mia vita. Ardisco dire di più, a gloria del medesimo Dio, che
mi contenterei di godere di quel bene che godetti in quei felici
momenti, di godere questo solo bene per tutta l’eternità, sì, quella
sola vista mi basterebbe per farmi eternamente beata; vorrei, per
rispetto e riverenza dovuta all’infinita maestà di Dio, tacere e non
parlare di quanto vidi alla sommità di quel vastissimo monte, ma la
santa obbedienza mi obbliga contro mia voglia il manifestarlo: ma io
cosa dirò mai, se la mia bassa mente non poté neppure comprenderlo?
Qual
vasto oceano di eterna immensità mi si presentò Dio, alla vista della
mia bassa mente. Oh felicissimi momenti, degni solo dell’infinita bontà
di un Dio, che tutto si dona per amore alle sue creature! La sola
vista, e non il possesso di questo grande bene, mi bastò di farmi beata
sopra la terra per quei felici momenti; mi fu mostrato il simbolo della
triade sacrosanta, sotto la forma di una splendidissima e vastissima
nube, questa aveva tre rappresentanze, benché una sola fosse la nube.
Tre
immensi raggi di eterna luce, in essa nube risplendevano, uno distinto
dall’altro, benché una sola fosse la luce, conservava, conteneva in se
stessa tre qualità di splendori, uno distinto dall’altro.
Cosa
così meravigliosa e bella che non si può spiegare, vista che rapisce lo
spirito e lo tiene assorto in Dio, vista che dona all’anima tutta la
sua felicità, vista che dona all’anima tutte sorte di beni
soprabbondanti, inarrabili e incomprensibili.
Non so spiegarmi
altrimenti, mentre mi avvedo che lo scrivere su di ciò, altro non è che
un oscurare l’alta gloria di un Dio di eterna maestà; spero però che
l’infinita bontà di Dio mi abbia per scusata, mentre la santa
obbedienza me lo comandò. Non intendo, mai e poi mai, sostenere quello
che passa nel mio spirito, ma solo intendo di assoggettarlo al savio
consiglio di vostra paternità reverendissima, a cui umilio questi miei
scritti, con tutto il dovuto rispetto e massima soggezione filiale alla
paterna sua carità.
72.7. Tornai a salire l’erto monte
Questo divino favore mi fu comunicato il dì 6 giugno 1823, giorno che ricorreva la festa del Cuore santissimo di Gesù.
Dopo
avere goduto di questo grande bene, che tenne assorto il mio spirito
per lo spazio di tre giorni, tornai di bel nuovo a salire l’erto monte
con fatica e stento, e ancora con maggior pena, perché dopo aver goduto
un sì grande bene, dopo essermi trovata in mezzo a tanta luce, tornare
in mezzo a tanta oscurità, dover calcare una terra adusta e montuosa
con il grave peso della croce in spalla, ognuno lo può intendere, qual
pena sia stata questa per me; oltre ciò si aggiungeva a questa pena
un’altra assai maggiore, ed era che l’anima, dopo aver goduto di questo
grande bene, ardentemente ne desiderava il possesso, e con ardenti
desideri cerca di svincolarsi da questo misero carcere del suo corpo,
lo chiedeva con umili preghiere al Signore, così, piangendo e
sospirando, mi affaticavo a salire l’erto monte per piacere al mio Dio
e per arrivare a goderne il possesso.
In questa situazione si
trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni 22, vale a dire dal
giorno 10, che l’anima riprese il suo viaggio al monte santo, mentre
dal giorno 6 giugno, per il favore surriferito, stette il mio spirito
assorto in Dio dal dì 6 fino al dì 9, il dì 10 riprese il suo viaggio
fino al dì 2 luglio 1823, festa della visitazione di Maria santissima,
fatta a santa Elisabetta, giorno molto memore per me, per avere
ricevuto in questa festa altri insigni favori, come a suo luogo si è
detto.
72.8. Ferisci tu il mio cuore
La mattina,
dunque, del 2 luglio, dopo la santa Comunione, si raccolse tutto in Dio
il mio spirito, nel tempo che stava così raccolto era tutto occupato a
considerare se stesso, il suo niente, il suo nulla, la sua cattività,
la sua profonda malizia nell’avere tanto offeso il suo Dio, si umiliava
profondamente avanti la sua divina maestà, piangevo amaramente le mie
gravi colpe, quando, tutto ad un tratto, fu rapita da Dio l’anima mia e
sollevata in modo molto particolare, che non so spiegarlo.
In
questo tempo, mi si fece vedere il mio Dio, tutto raggiante di eterna
luce, il quale teneva nelle sue santissime mani come un pugnale, mi
servo di questo basso termine, per non sapermi altrimenti spiegare, ma
cosa più bella io non vidi giammai, né posso ad alcuna cosa sensibile
paragonare, dunque dirò, col nobile pugnale Dio l’anima mia ferì: oh
dolce ferita, che di santo amore il mio cuore riempì! la nobile ferita,
di santo languore; nelle braccia del suo Signore l’anima semiviva se ne
restò, perché il colpo amabile trapassò il mio cuore, dal dolore dei
peccati e dal divino amore io mi sentivo morire.
L’anima,
rivolta a Dio, così prese a parlare: «Amato mio soccorrimi, deh non mi
abbandonare, il nobile tuo pugnale il cuore mi trapassò; mio Dio, come
farò? E se tu mi hai ferita sanami ancora tu».
Così intesi rispondermi: «Sì,
mia cara amica, la nobile ferita io ti risanerò, deh prendi nelle tue
mani, il misterioso segnale, sorella mia carissima, ferisci tu il mio
cuore».
L’anima ritrosa, ricusa di ciò fare, le mancano
gli accenti di potersi con il suo Dio spiegare, il santo timore
ingombrava il mio cuore e mi impediva di obbedire; così nuovamente
intesi parlare: «Deh, non ti arresti il colpo il santo timore, perché
il divino mio amore questo esige da te; deh non mi privare, diletta mia
sposa, di questo piacere, ferisci suvvia, l’amante mio cuore».
A
queste parole, una forza imponente mi prese la mano e mi obbligò a
ferire l’amante cuore del mio Signore. Mandato il colpo, oh colpo
fatale, di santo orrore il mio spirito si ricolmò, fra me dicevo,
tremante e confusa: «Oh santo ardire, cosa mi facesti fare? ferire un
Dio di eterna maestà! questo è un delitto di lesa maestà. Oh Dio, il
mio confessore cosa mi dirà, di certo mi griderà, io non ho il coraggio
di manifestargli questo fatto, che al solo pensarlo mi sento morire»,
piangendo dirottamente, dicevo: «Mio Dio, ditemi voi quello che devo
fare».
Così mi intesi rispondere: «Dirai al tuo direttore che il
tuo Creatore a questo ti obbligò; digli che un uomo Dio ferito fu da
te, digli che il dolce strale ti fu dato da me, che tu feristi, oh
cara, l’ampiezza del cuore mio, che tu feristi un Dio di eterna maestà!
E questo lo volli io, in segno del tuo amore. Con quanta compiacenza io
ricevetti il colpo, che mi fu dato da te, sposa carissima, a te mi
unisco con perfetta unione e divina congiunzione, per non separarmi mai
più da te! Ricevi gli sponsali amplessi, che sono i prodotti del mio
parziale amore».
In mezzo a queste e ad altre sante espressioni,
Dio, con quel medesimo pugnale, tornò l’anima a ferire. Mi mancano i
termini e le espressioni di potermi spiegare, per poter ridire i santi
affetti di questi due cuori feriti; ognuno lo può intendere a seconda
dei lumi che gli comparte il Signore, ma spiegarlo al certo non si può;
lascio dunque a vostra paternità reverendissima l’intendere quanto
rozzamente ho detto; come ancora, per quiete del mio spirito, soggetto
tutto al savio suo consiglio, per timore di non essere ingannata dal
demonio. La prego di esaminare con tutto il rigore i miei scritti, e
dirmi con santa libertà se sono ingannata dal demonio.