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69 – HO PERDUTO IL MIO DIO!
Dal
dì 25 fino al dì 31 dicembre 1822, il mio spirito è stato godendo in
questi sei giorni un bene molto grande, mentre l’anima, in questo
altissimo monte, godeva la vicinanza di Dio, sempre fisso teneva il suo
sguardo in Dio, per ogni dove mi volgevo, trovavo il mio amorosissimo
Dio, era sempre presente a me in una maniera molto particolare.
Oh
cara mia sorte, oh degnazione ammirabile di un Dio amantissimo
dell’anima mia! Trattenersi con me? trattenersi dentro di me! fuori di
me, e di tutta circondarmi ed unirmi in qualche maniera alla sua
immensità, che posso dire, senza alcun dubbio, che in questi sei giorni
il mio spirito fu tutto assorto in Dio, senza capire le cose sensibili
della terra, tanto era l’anima mia occupata e fissa in Dio, che i
sentimenti del corpo erano tutti attratti in maniera che quel poco che
agivo non era che per abito, sebbene in questi casi me la passo tutta
la giornata e buona parte della notte, nel mio oratorio privato, senza
farmi vedere, fuori di un caso di necessità e occorrenza della propria
famiglia, secondo l’obbligo del mio stato.
Passati i suddetti
sei giorni, tutto ad un tratto mancò questa bella vista e tutto questo
grande bene che godeva l’anima mia, e mi trovai in un momento tutta
ricoperta di folte tenebre, senza più distinguere dove mai io fossi,
dove mai io mi trovassi. Qual pena sentivo in me, più non vedevo il mio
carissimo Dio, piangendo dirottamente, lo cercavo e non lo trovavo.
«Oh
mio Dio, quale inaspettato avvenimento è questo per me», dicevo,
«quando meno me lo aspettavo, voi vi siete partito da me. Oh bel sole
di giustizia, parevami al certo di essere tutta inabissata nel vostro
divino splendore, e che mai potessi più perdervi di vista, speravo di
avervi trovato per non perdervi mai più, mio Dio, e come mai in un
tratto sono passata della luce inaccessibile alle più folte tenebre. In
questo buio io niente vedo, niente distinguo, sento opprimermi il
cuore, mio amorosissimo Dio, deh per pietà, datemi aiuto, soccorso per
carità. Ma viepiù la pena a dismisura opprimeva il mio cuore e il santo
amore faceva amoroso scempio di me.
Andavo per sollevare la
mente verso il mio Dio, e ne ero respinta; piangevo amaramente,
riconoscendomi meritevole di questo castigo. Cresceva in me il
desiderio di ritrovare il mio Dio, e viepiù si addensavano le folte
tenebre, e così sempre più si faceva maggiore la mia pena; in questo
stato così afflittivo ricorsi alle sante virtù della fede, della
speranza, della carità, con molto fervore dicevo: «Oh sante virtù, voi
additatemi il mio Gesù, io ho perduto il mio Dio, per mezzo vostro io
lo voglio ritrovare; Gesù mio, voi mi avete meritato queste sante virtù
con lo sborso del vostro preziosissimo sangue, dunque comandate a
queste sante virtù che favoriscano la povera anima, non vedete in che
stato deplorabile io sono ridotta? Gesù mio, spero certo da voi questa
grazia».
69.1. Fede, speranza e carità
Non furono
vane le mie speranze, né andarono a vuoto le mie suppliche e le mie
lacrime, che in molta copia versavo; mercé la misericordia del mio Dio,
puntualmente mi favorirono queste sante virtù teologali, ma me le donò
in un grado molto eccellente ed elevato, che potei esercitare gli atti
più sublimi di fede, di speranza, di carità.
Queste sante virtù
mi additarono il mio Dio, l’anima dunque virtualmente ritrovò il suo
Dio, e tutta in Dio si riposò, ma senza vederlo, solo in virtù della
fede che mi assicurava con ogni certezza, sicché l’anima mia con
infallibile sicurezza si abbandonava e si riposava tutta in Dio, in
virtù della fede, questo è un atto molto meritorio per l’anima e tanto
caro a Dio, che altamente se ne compiace, perché rende a Dio molta
gloria e molto onore, ma peraltro dobbiamo confessare che questi atti
di virtù, tanto eminenti ed eccellenti, non si possono da noi praticare
senza una grazia speciale di Dio, sicché la povera anima mia altamente
se ne confonde, dopo di aver praticato sì eccellenti virtù, si umilia
profondamente e ne rende la più affettuosa grazia al suo Dio,
confessandomi affatto incapace di esercitare questi atti di virtù.
L’anima
dunque, per rendere onore e gloria all’amato suo bene, si compiaceva di
proseguire a stare in quelle folte tenebre, ed intanto, con la grazia
del Signore, si andava esercitando in queste sante virtù teologali, non
trascurando ancora l’esercizio delle altre virtù, non desiderando altro
che di piacere e compiacere il mio Dio, non curando più me stessa, né
il mio grave patire, ma solo abbandonata al beneplacito dell’amato mio
bene.
69.2. Il mio Dio si prende gioco di me
Vedendomi
il mio Dio tutta anelante ed ebbra del suo santo amore, in mezzo a
quelle folte tenebre, altamente se ne compiaceva, e si prendeva gioco
di me.
In mezzo a quelle folte tenebre, dall’anima si faceva
vedere con tanto splendore e bellezza che l’anima ne restava rapita ed
innamorata ad un segno, che non poteva più contenere se stessa, sicché
non camminava, ma volava per approssimarsi all’amato suo Dio, che con
tanta ansietà fino allora aveva cercato con tanta fatica e stento. Ma
che, quando credeva di raggiungerlo, nuovamente si nascondeva,
lasciando nell’anima maggior brama di possederlo. Si accendeva viepiù
in me la fiamma della divina carità, e questa faceva crudo scempio di
me, e l’anima mia, piena di fortezza e costanza, sempre più con sommo
ardore, in mezzo a quelle folte tenebre, cercava il mio Dio. Di qual
tempra sia questa sorta di patimenti non si può di certo spiegare.
Senza la grazia speciale di Dio non si resiste, perché è così crudo e
sensibile il patire, che può chiamarsi un forte martirio, che non si
può spiegare. Mentre Dio dona all’anima un desiderio veementissimo di
congiungersi, di unirsi con lui, di medesimarsi con lui, tanta è
l’intelligenza ed il rapimento che le comparte, che necessita l’anima
di aspirare a questa perfetta unione; intanto Dio, per compiacenza,
suscita nell’anima un amore tanto grande che la strugge e consuma per
amore dell’amante e le rende altamente afflitto il cuore.
Ogni
giorno si accrescevano a dismisura le pene, le angustie nel desolato
mio spirito. Compartendomi Dio per sua bontà tanto lume di propria
cognizione, che odiavo me stessa, e mi pareva di essere odiosa a Dio,
ai santi, agli angeli, agli uomini.
Oh Dio, qual pena è mai
questa, che non si può spiegare, che portava l’anima mia ad un doloroso
conflitto; altro non facevo che pascermi di amarissime lacrime e di
affannosi sospiri, sopraffatta dalle pene e dal dolore, che mi riduceva
quasi ad agonizzare.
Una notte stando in queste orazioni così
penose per accrescimento delle mie pene, vidi il mio spirito sopra quel
monte anzidetto, che camminava in mezzo a quelle folte tenebre; un
piccolo splendore lo scortava e gli additava il cammino dell’erto
monte, camminava con molta attenzione appresso al piccolo splendore,
per il timore di non perdersi in mezzo a quelle folte tenebre.
Il
mio spirito lo vedevo per mezzo di quella piccola luce, ed era tutto
vestito di candide vesti, ma quello che mi recò gran pena fu di vederlo
vestito goffo e poco attillato, erano questi bei vestimenti tutti
risplendenti.
Questa vista mi consolò, ma non restò pago il mio
cuore, perché l’importunità delle vesti mi parve che volesse
significare la mia negligenza nell’operare, sicché per questo molto mi
afflissi, e piangendo dirottamente chiedevo perdono al Signore e lo
pregavo incessantemente di darmi la grazia di corrispondere alle tante
sue divine misericordie e a tanti suoi favori.
Non sto qui a
dire le lunghe preghiere che facevo, le lacrime che versavo, gli
affannosi sospiri che il mio cuore inviava verso il suo Dio, mentre in
mezzo a quelle folte tenebre non distinguevo se Dio era con me, se io
ero in grazia sua; qual pena recasse questa dubbiezza al mio cuore, non
posso al certo esprimerlo. Sentivo intanto un amor grande verso Dio, ed
una necessità di amarlo.
Questa è un’amorosa prova che Dio fa
all’anima, e l’anima mia molto bene lo distingueva, e viepiù si
accendeva di santo amore, il quale faceva crudo scempio di me, e così
martirizzava l’anima e il corpo. Questo doloroso conflitto durò 33
giorni: dal 31 dicembre 1822 fino al dì 3 febbraio 1823. Sicché il mese
di gennaio lo passai in queste gravissime afflizioni.
Tralascio
il dire come Dio, per sua infinita bontà, mi sollevò da queste gravi
angustie, riservandomi a darne riscontro in altro cartolaro. Intanto
prego vostra paternità reverendissima di esaminare questo, che umilio e
soggetto al savio suo parere e consiglio, per quiete della povera anima
mia, la quale sempre dubita di essere ingannata dal demonio:
protestandomi avanti al mio Dio, di aver scritto questi fogli a sua
maggior gloria, e per obbedire vostra paternità, che me l’ha comandato.
69.3. Una chiamata improvvisa
Il
dì 3 febbraio 1823, la notte stava ragionando con le mie due figliole
di cose indifferenti, non lasciavo intanto di soffrire le mie interne
pene e le mie gravi angustie di spirito, quando improvvisamente sento
un tocco interno della divina grazia, ma tanto forte e violento, che mi
trasse in un subito fuori dei propri sensi, per la forte chiamata il
mio corpo si levò in gelido sudore.
Io non capivo il significato
di questa improvvisa chiamata; in questo tempo mi sopraggiunse un forte
svenimento, le figlie, avvedutesi di questo mio male, volevano
adagiarmi sopra il letto, ma io le dissi: «Non posso, conducetemi al
mio oratorio!». Come di fatto fecero. Una delle figlie stette un poco
di tempo a vedere come io mi sentivo, essendomi avviticchiata in terra,
perché non mi potevo reggere altrimenti; la suddetta mi mise una sedia,
perché mi sostenesse, mi voleva portare dei cuscini, perché mi
appoggiassi, ma io la ringraziai e le dissi che fosse andata pure a
fare le sue incombenze, che mi avesse lasciata in libertà, che stesse
quieta, che io mi sentivo bene.
Obbedì la figliola, mi lasciò in
libertà. Chiusa nel mio oratorio, l’anima mia se ne andò al suo Dio,
che così fortemente la chiamava: «Mio amorosissimo Dio», diceva
l’anima, «cosa volete da me, io non v’intendo!». In questo tempo si
sopì in Dio l’anima mia, ed il Signore dolcemente così la chiamò, e la
destò da quel soave sonno: «Giovanna Felice del mio cuore», mi disse,
«perché tanto ti affliggi? E non vedi che il divino aiuto è nelle tue
mani? Di che temi, di che paventi? Se io sono con te, chi sarà contro
di te? chi ti potrà nuocere? chi ti potrà sovrastare?».
A queste
amabilissime parole, qual mi restassi io non so dirlo, perché in quel
momento che il mio Dio si degnò manifestarsi all’anima, ad un tratto
passai dalle afflizioni ad una consolazione tanto grande che non posso
spiegarlo, passai dalle folte tenebre alla risplendente luce. L’anima
intanto, vedendo il suo Dio, ebria di amore, con affettuose parole,
così rese a parlare, umiliandosi profondamente con sommo rispetto, così
gli dissi: «Mio Dio, mio Signore, padrone assoluto del cielo e della
terra, mio Creatore, mio Redentore in cui credo fermamente, da cui
spero tutto il mio bene, vi amo, sì, vi amo, mio Dio, mio Signore, vi
amo più di me stessa, oh quanto sono contenta! oh quanto è grande la
mia consolazione di avervi pur ritrovato una volta! oh quanto è stato
crudo il mio esilio! Io lungi da voi? e voi lungi da me? Mio Dio, io
più non vi sentivo in me, ciò nonostante mi sentivo viepiù innamorata,
appassionata di voi, mio Dio, mio amore, mio tutto, il vostro santo
amore ha fatto crudo scempio di me. Ah Gesù mio, non sia più così, non
vi nascondete più agli occhi della mia mente, non vedete a che stato mi
ha ridotto il vostro amore! Ah, Gesù mio, abbiate pietà di me, adesso
che vi siete fatto da me ritrovare, non vi separate più da me: Ne
permittas me separari a te». Con queste ed altre simili espressioni,
che non mi dà l’animo di poterle manifestare, perché in questi casi
cento e mille affetti insieme assalgono il mio cuore, perché prodotti
sono dalla grazia del Signore. Lascio per un momento il mio spirito con
il suo Dio, sfogando il suo ardente amore, e ricevendo dal suo amato
bene i più distinti favori della sua divina carità.
69.4. Appoggiata a un bellissimo bastone
E
prendo a raccontare cosa vidi in quello spazio di tempo che sarà stato
di circa due ore e più, di dunque in questo tempo il mio spirito in
mezzo a quelle folte tenebre, che rischiarate venivano dalla suddetta
luce, vedevo il mio spirito che si affrettava a camminare per l’interna
chiamata avuta dal suo Dio; lo vedevo vestito nella medesima maniera
anzidetta, vestito di candide vesti, ma queste erano mal messe e senza
attillatura. Camminava con molta celerità e speditezza, a cagione di un
bellissimo bastone che teneva nella mano destra, sul qual bastone lo
spirito si appoggiava e si sosteneva, e così si rendeva abile a
camminare velocemente.
Io restai molto ammirata nel vedere il mio spirito che camminava così velocemente; in questo tempo così intesi dirmi: «Non
ti rechi meraviglia la celerità del suo cammino, non vedi che il divino
aiuto è nelle sue mani, sotto il simbolo di quel forte bastone!
Giovanna Felice, rallègrati e non ti rattristare, non fissare il tuo
sguardo negli abiti più o meno attillati, il camminare è quello che ti
giova. Affréttati dunque, e non ti perdere d’animo; dalle tenebre
passerai alla luce. Mira, o figlia, fin dove vuol condurti il mio
amore».
Dette queste parole, fisso lo sguardo della mente
e vedo un sommo splendore che tutta mi circondava e mi medesimava in
Dio, per partecipazione godevo un bene essenziale, non so spiegare se
fuori di me stessa, o dentro di me stessa, perché il mio spirito io più
non lo distinguevo, tanto era in Dio medesimato ed intimamente unito;
non so spiegare di più. Ne lascio a vostra paternità reverendissima il
decidere, se io con giusti o ingiusti termini, mi sono spiegata, come
ancora se queste siano opere dello Spirito del Signore, ovvero larve
del tentatore.
69.5. Un monte la cui sommità arriva al cielo
Riprendo
il filo del racconto. Dopo essere stata per qualche tempo godendo di
questo bene inarrabile, che non so dire qual spazio di tempo fosse,
tornai in me stessa ritenendo in me i buoni effetti, mi trovavo ancora
tutta assorta in Dio, e quasi come in un nuovo mondo, tanto per il
favore ricevuto, come ancora per trovarmi sgombra da quelle folte
tenebre. In questo tempo fu nuovamente chiamata l’anima da Dio, il
quale si degnò farmi vedere un monte altissimo, la cui sommità arrivava
al cielo. Era questo monte ricoperto di languida luce, ma era tanto
erto e dritto che sembrava impossibile il poterlo salire. Io lo
guardavo con ammirazione, ed intanto riflettevo alla grande difficoltà
di poterlo salire, ciò nonostante questi ostacoli, io sentivo in me un
santo desiderio di intraprendere quell’arduo cammino, ma bilanciavo le
mie deboli forze, e sempre più si sembrava non solo difficile, ma
affatto impossibile di intraprendere un sì laborioso viaggio.
Stando
io in questo forte contrasto, non sapevo cosa risolvere, ma il mio Dio
si degnò di sciogliere tutte le mie difficoltà, così prese a parlare il
mio buon Signore: «Figlia carissima, non bilanciare le tue forze; ma,
tutta affidata alla mia onnipotenza, potrai con facilità salire l’erto
monte, il mio divino aiuto mai ti mancherà. Io sarò sempre con te e tu
felicemente arriverai fino alla sommità del monte santo dove io ti
aspetto per coronarti d’immortalità, questa sarà un’opera per me di
gloria e di onore, e per te di gran merito».
A queste parole la
povera anima mia profondamente si umiliò, e con voce flebile e tremante
così rispose: «Mio Dio, dove mi volete voi condurre? Che non mi
conoscete, che sono la creatura più vile, più ingrata che abita la
terra? Come volete che l’anima mia, contaminata da tante miserie e
peccati, possa salire questo monte santo, che hanno calcato i vostri
fedelissimi servi che ora vi godono in paradiso? Ah, non son degna, mio
Dio, di tanto onore. Cosa potete sperare da me, povera e vile vostra
serva, voi lo vedete, Dio mio, Signore mio, che io altro non faccio che
disonorare la vostra divina maestà, con le mie replicate ingratitudini!
Ah Signore, abbiate riguardo al vostro onore, alla vostra gloria, la
quale mi è più cara che il proprio mio vantaggio».
Fondata in
questi umili e giusti sentimenti, piangevo dirottamente e sospiravo, in
luogo di consolarmi stavo tutta mortificata, stetti due giorni in
questa situazione.
Ero tutta assorta in Dio conservando nel mio
cuore questi umili sentimenti, in santo raccoglimento, lodavo e
benedicevo il mio Dio, che si degnava favorirmi con la sua divina
grazia, nonostante il mio gran demerito.