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29 – LE MIRABILI PERFEZIONI DI DIO


Il dì 15 settembre 1815 ormai non so come fare per spiegare i mirabili effetti della grazia. L’anima mia si solleva a Dio per mezzo di particolare penetrazione, l’intelletto conosce le mirabili perfezioni del suo buon Dio, e resta di lui tanto innamorato che non si può ridire; gode infinitamente di possederlo, gode, giubila, dolcemente se lo stringe al seno, ma perché dubita di perdere l’amato suo bene, le pare che l’aria stessa gliene tolga il possesso. L’anima con somma attenzione si nega a tutte le creature, perché sempre dubita di perdere il suo Creatore; è infinitamente gelosa, vigila sopra se stessa in una maniera molto particolare; a tutti si nega, perché dubita di intorbidare il puro e santo amore che nutre nel suo povero cuore; ma perché dubita di perdere l’amato suo bene, le pare che l’aria stessa gliene tolga il possesso, con molta frequenza si protesta di voler patire qualunque gravissima pena, piuttosto che patire la minima alterazione o diminuzione del puro e santo amore.

A questo oggetto rinunziai affatto a tutte le creature e a me stessa, ma perché lo spirito si riconosce insufficiente per se stesso, prega il santo e puro amore di impadronirsi della povera anima mia, e per ottenere la grazia, prega incessantemente con molte lacrime l’infinita bontà di Dio, acciò si degni rendermi certo il possesso dell’infinito suo amore.

Dio si degnò di esaudire i miei voti, nella santa Comunione, dunque, per mezzo di intellettuale intelligenza, me ne rese la sicurezza, mi diede a vedere il mio spirito circondato dalla sua infinita potenza, sapienza e bontà, mi vedevo dunque circondata da un muro altissimo, fortissimo, incorruttibile. Era questo muro di pietra durissima, bellissima, preziosissima, tramandava questo nobilissimo materiale suddetto una luce chiarissima; lo splendore di quella riempiva, illuminava, penetrava il mio intelletto in una maniera mirabile mi vedevo penetrata, medesimata con la suddetta luce.

Nel suddetto circondario non vi era alcuna porta, né finestre da poter sortire, sicché vidi il mio spirito necessitato a quivi rimanere. Oh, qual gaudio inondò il mio cuore! per la sicurezza del possesso dell’eterno amore! Vi erano in questo luogo cinque ferrate, e in queste venivano significati i cinque sentimenti del mio corpo, per dove aveva lo spirito comunicazione con le cose sensibili; per queste l’anima si rattristava, e non osavo avvicinarmi a quelle.

«Appressati», sentivo dirmi, «appressati a queste senza timore. Non possono le tenebre introdursi dove risiede la luce, ma sappi che tutti quelli che quivi si appresseranno, riceveranno il benefico influsso della mia grazia». Che è quanto dire che nel corso della mia vita Dio si degnerà, per mezzo del mio spirito, di illuminare molte anime.

Era il mio spirito vestito di un abito bianco candido, tutto sfolgoreggiante di luce, che se ne stava in ginocchioni prostrato, pieno di profondo rispetto e venerazione, adorando, lodando, amando il suo amorosissimo Dio, umiliando se stesso benediceva il suo SS. Nome.

29.1. Immersa nel vastissimo oceano dell’immensità di Dio


Riporto un fatto che non ricordavo, ma nello sfogliare il giornale l’ho trovato scritto; seguitomi il dì 3 settembre 1815. Nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice, tutto ad un tratto fu il mio intelletto occupato dall’immensità di Dio, come un vasto oceano lo immaginavo. Al momento fui dalle purissime sue acque immersa intimamente, fino a profondarmi nel vastissimo seno della sua immensità.

Mio Dio, dove m’inoltro! cosa mai potrò ridire della vostra immensità se dopo aver detto quanto mai dir si possa da qualunque umana intelligenza, non può ridirsi che un’ombra di quello che è in realtà. Mi servirò delle parole del santo apostolo Paolo, e dirò con lui che vidi cose così grandi che né occhio mai vide, né orecchio udì, né cuore provò godimento simile. Ma per non mancare all’obbedienza, proseguo rozzamente a manifestare quello che non potei neppure comprendere con la mia bassa mente.

Fui dunque immersa in questo vastissimo oceano, dove mi si rappresentava l’immensità di Dio, dove le potenze dell’anima mia restarono perdute affatto; in questa incomprensibile vastità fui inoltrata fino all’amplissimo suo seno, dove trovai immense ricchezze, perle preziose, pietre di immenso valore. Mi servo di questi oggetti, che noi chiamiamo preziosi, per potermi spiegare, ma molto diverso era quanto vidi, quanto udii, quanto gustai. Sovrana voce così mi parlò, non con parole, ma per parte d’interna cognizione mi fece intendere che avessi preso le preziose gemme, e avessi adornato la povera anima mia. In queste preziose gioie venivano significati i meriti di Gesù Cristo. A questo espresso comando, la povera anima mia prese le preziose gioie e si adornò di queste da capo a piedi.

Non è possibile spiegare la bellezza, la vaghezza di quest’anima, così riccamente adornata. Basti dire che l’eterno Dio la degnò dei suoi sguardi, nel mirarla in lei si compiacque altamente, per vederla adorna dei preziosi meriti del diletto suo Figlio, mandò rapidamente il suo splendore ad investirla. Eccomi dunque tutta penetrata dal bel sole di giustizia. Il suo splendore rifletteva in quelle preziosissime, bellissime pietre preziose che mi adornavano, e lo splendore mi faceva divenire una stessa cosa con lui.

Stimatissimo padre, più di quanto ho manifestato, non so, non posso ridire, mi si rende impossibile.

29.2. Questa è la mia figlia diletta


Il dì 11 settembre 1815, nella santa Comunione, Dio sollevò il mio spirito e lo degnò di particolar unione, e gli compartì grazie molto particolari, per fino a farmi oggetto delle sue compiacenze. Mi mostrò ai grandi della sua corte: «Questa», diceva, «è la mia figlia diletta, in cui ho posto le mie compiacenze».

A queste parole l’anima mia si annientava, e riconosceva la sua propria miseria; lodava, benediceva, ardentemente amava il suo Signore; e, piena di meraviglia, confessava la sua propria viltà. Nel tempo che la povera anima mia se ne stava tutta umiliata in se stessa, Dio l’abbracciò strettamente. Dopo aver goduto i casti abbracciamenti del sovrano suo re, restò per mezzo del puro e santo suo amore, medesimata con lui; restò lo spirito tutto assorto in Dio, in una maniera tanto particolare, che tutto il resto della giornata fui alienata dai sensi. Quel poco che agii sensibilmente si fece da me per abito, senza capire cosa alcuna; il mio corpo, per la mancanza dello spirito, si era gelato come un morto, incapace di ogni sensazione, per ben tre volte tornò affatto a sopirsi lo spirito, per essere intimamente toccato da Dio, e favorito con nuove grazie.

Tornò l’eterno Dio a dimostrarmi l’infinito suo amore, per mezzo di dolcissime espressioni e di certi castissimi abbracciamenti, che non ho termini di spiegare; il mio spirito, per mezzo di questi, restava purificato e assottigliato, fui circondata da chiara luce, da questa luce fui tutta penetrata, unita, medesimata. Unita a questa luce godevo un bene infinito, inarrabile; nel profondo silenzio e nella dolcissima quiete godevo una perfettissima pace; in questa ascoltai con mio sommo stupore armoniche voci dei sovrani spiriti, che pieni di stupore cantavano alternativamente la seguente antifona e salmo, con somma loro ammirazione: Elegit eam Deus et praelegit eam, Deus in medio eius, il salmo Fundamenta eius in montibus sanctis, con quel che segue, fino al Gloria.

L’anima mia si unì alle lodi che davano a Dio questi beati spiriti, e, sopraffatta dal santo e puro amore, nuovamente tornò a perdersi tutta in Dio, sommo suo amore. Il mio corpo restò affatto alienato dai sensi per la grandissima attrazione che godeva lo spirito in Dio; la dolcezza, la soavità particolare che godeva lo spirito si diffondeva anche nel corpo, sicché le ossa, le midolla delle ossa, parteciparono di questa esuberante dolcezza, in maniera che il corpo perdette l’uso dei sensi, e tutto immerso se ne stava in quel bene che lo spirito comunicava loro.

L’anima si rese incapace della minima alterazione, in tutta la giornata e buona parte della notte ha proseguito a stare nella suddetta situazione; si andava molto spesso accendendo un interno fuoco, che mi pareva di restare incendiata, e allora viepiù lo spirito restava sopito in Dio; mi pareva di respirare fuoco, di essere circondata da fuoco, mi pareva veramente di stare in una fornace ardente.

In mezzo a questo sacro fuoco lo spirito tornava di bel nuovo a sopirsi in Dio, si accendeva viepiù nel mio cuore il sacro fuoco e formava un incendio che mi faceva tutta bruciare, e mi privava delle forze naturali. In mezzo a questo sacro fuoco il mio spirito si sollevava a Dio, per mezzo della fede, della speranza, della carità, sicché Dio si compiaceva nell’anima, e l’anima si compiaceva nell’eterno suo Dio, in lui si deliziava, lo amava ardentemente con esuberanza di affetto, amava Dio, unico suo bene; con tanta carità l’amava, che tornava rapidamente a slanciarsi nelle sue amorosissime braccia.

Dio con sommo amore nuovamente la ricevette tra le sue santissime braccia, e le fece gustare la dolcezza della sua infinita carità; quando Dio benignamente riceveva l’anima, tornava a spandersi nel mio cuore il santo fuoco, e di nuovo tornavo tutta a bruciare, e per conseguenza restavo alienata dai sensi.

29.3. Mi fece comprendere il sacro fuoco che mi bruciava


Il dì 28 e 29 settembre 1815 si andava viepiù a farsi grande l’incendio, mentre il santo e puro fuoco del santo amore di Dio si andava spandendo, e ogni giorno più si faceva padrone del mio povero cuore, e sempre più mi sentivo bruciare. Mi pareva alle volte che gli abiti stessi bruciassero, e le mie carni restassero incendiate dall’ardore dell’interno fuoco. Andavo scioccamente dicendo tra me stessa: «Cosa sarà mai questo sacro fuoco che tanto mi brucia? Forse saranno carboni ardenti, ovvero fiamme vive che così mi incendiano? Oh portento, prodigio di amore! manifestati al mio cuore, lasciamiti conoscere cosa tu sei! Oh, amor mio, come tanto mi bruci, che sono un vivo incendio, che più non posso contener me stessa! Oh, sacro fuoco, lasciati da me conoscere!».

Nel tempo in cui, con santa semplicità, così ragionavo, per particolare intelligenza il mio Signore benignamente mi fece comprendere che il sacro fuoco, che tanto mi bruciava, non è simile al nostro materiale fuoco, ma è uno spirito purissimo, che Dio si è degnato infondere nell’anima mia per mezzo della suddetta unione; e siccome questo spirito sta racchiuso nel mio cuore, quando a Dio piace, questo si spande qual prezioso liquore, e la fragranza e la soavità viene ad incendiare lo spirito, sicché l’intelletto e la volontà vengono ad essere inebriate eccessivamente di amore, e al corpo viene a mancare la forza naturale. Questa mi pare che sia un’infermità bella e buona.

Carissimo padre, si degni di darmi il suo sentimento su quanto le ho finora manifestato, riguardo al mio povero spirito; mentre l’anima mia si affida tutta alla sua paterna cura, al suo prudente e dotto sentimento, e maturo consiglio; e se trova nel mio spirito inganno o illusione, si degni di parlarmi con chiarezza, senza alcun riguardo.

Un altro effetto produce in me questo santo e puro fuoco di amore, ed è che ormai non sono più abile a veruna cosa sensibile; dovendo dunque operare sensibilmente mi costa molta fatica, mi pare di stare in uno stato violento, ma il Signore mi ha fatto intendere che questo è veramente esser vittima del puro e santo suo amore.

Dopo tutti questi favori, chi lo crederebbe? il mio spirito è tanto intimorito, che dubita della sua eterna salvezza, e pieno di timore domanda al suo Dio se si degnerà di salvarlo. Questo santo timore mi viene infuso dalla particolare cognizione che Dio mi dà della sua divina giustizia.

A questa cognizione l’anima si riempie di santo orrore, e umile e mansueta chiede grazia al suo sovrano Signore di non giudicare la sua causa, e con lacrime abbondanti deplora il malfatto e si raccomanda caldamente al suo Signore: «Gesù mio», andavo ripetendo tutta intimorita, «caro Gesù, usatemi misericordia. In quel momento estremo voi non sarete più il mio caro padre, ma sarete il mio severo giudice! Dio mio, dove mi nasconderò, per non vedervi sdegnato contro di me?».

E piangendo e sospirando vado consumando il tempo e me stessa, per la pena di aver offeso Dio, sommo mio amore, degno di essere infinitamente amato.

29.4. Per rendere più gloriosa l’opera mia


Il dì 30 settembre 1815, nella prima orazione subito levata, si riempì il mio spirito di santo orrore alla orazione preparatoria, ricordando la mia grande ingratitudine, piangevo dirottamente e chiedevo a Dio perdono, e deploravo quel tempo infelice in cui offesi Dio. Dicevo piena di lacrime: «Ah, non fossi mai uscita da quel monastero dove vi amavo tanto teneramente, o amor mio, Dio mio! e mantenevo illibato il mio candore, e con la pratica delle sode e vere virtù non altro bramavo che piacere a voi, sommo mio amore. E chi mai da quel sacro chiostro mi trasse, mio Dio, additatemelo voi».

Secondo il solito, così mi parlò il pietoso Signore: «Io ti trassi da quello, per rendere più gloriosa l’opera mia. Che importa a te l’aver perduto per natura, quello che io ti ho tornato a donare per grazia?».

A queste parole lo spirito si annientò profondamente, e nella umiliazione lodava, benediceva, amava, ringraziava il liberalissimo suo donatore.

Il dì 2 ottobre, nella santa Comunione sperimentai nello spirito una profonda mestizia, che rendeva al mio cuore una profonda afflizione, che mi faceva veramente agonizzare. In questa agonia provavo un abbandono penosissimo; la povera anima mia arrivò a patire il colmo delle pene interne, che mai si possono provare, ma quello che rendeva più gravoso il mio patire era l’abbandono. Si disfaceva il mio cuore in lacrime amarissime di dolore; in questa gravissima pena, l’anima non si allontanava dal suo Dio, ma con sommo affetto gli mostrava la grave pena, e nel tempo stesso la sua fedeltà, e con animo virile affrontava il patire, protestandosi che mai e poi mai si sarebbe allontanata dall’amoroso suo Dio. Con petto forte e costante dicevo al mio Signore: «Trattatemi come vi piace: vi sarò sempre fedele!».

E desideravo ardentemente sommergermi in quelle pene, per potere a lui piacere. Ma chi lo crederebbe? il pietoso Dio, mi mostrò il suo amore, abbracciò strettamente tra le sue santissime braccia la povera anima, quasi come avesse compassione delle pene in cui gemevo; la povera anima mia al momento restò consolata; si degnò farmi gustare una dolcezza di spirito tanto particolare, che non ho termini di spiegare il particolare favore. Oh qual gaudio al momento inondò il mio cuore! Oh che dolcissima soavità, passare da un penosissimo abbandono ad un tenero abbraccio del mio amorosissimo padre. E chi mai potrà contarne la magnificenza?

Il pietoso Dio assicurò il mio spirito della sua particolare protezione e custodia, così prese a dire: «La divina mia provvidenza è stata mai sempre benigna verso di te. Abbandònati in me con sicurezza, vivi in pace!».

Le sue parole riempirono di gaudio il mio cuore, e nel godere quel gran bene, benedicevo le pene anzidette, perché mi avevano meritato quel gran bene.

29.5. Vedevo molte anime vestite dell’abito trinitario


Il dì 7 ottobre 1815 nella santa Comunione, così Giovanna Felice: fui trasportata in spirito nella chiesa di san Dionisio, dove vidi che il suddetto santo, per ordine di Dio, invitava i santi patriarchi Felice e Giovanni de Matha a prendere possesso della sua chiesa e monastero, con molta cortesia li rendeva padroni del tutto.

Mi pareva che i santi trinitari prendessero la padronanza di questo luogo; vedevo tre angeli santi, vestiti con il sacro abito trinitario, che conducevano con loro un’anima tuttora vivente, a me cognita, che da quei sublimissimi spiriti fu presentata ai gloriosi patriarchi, santi Felice e Giovanni de Matha, i quali la ricevettero amorosamente e la vestirono del loro sacro abito. Vestita che la ebbero, le consegnarono le loro sante regole, e i santi angeli subito presero possesso di quel sacro luogo, e divisi in tre rispettive parti, quali fedelissimi custodi del suddetto luogo, a questo oggetto lo custodiscono; molte altre anime vedevo vestite del sacro abito, che unite in carità vivevano in Gesù Cristo.