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27 – NEL NUMERO DELLE SANTE VERGINI


27.1. Sant’Ignazio, mio maestro e padre


Il dì 27 luglio 1815, per particolare ispirazione, con la licenza del mio direttore, detti principio ad un triduo in onore del glorioso patriarca sant’Ignazio. A questo oggetto mi portai al noviziato dei Padri Gesuiti, e nella loro chiesa feci la santa Comunione per tre giorni consecutivi, ad onore del gran patriarca, pregandolo incessantemente a volermi ottenere la vera perfezione, la corrispondenza alle molte grazie che Dio mi comparte, per sua infinita bontà.

Questi tre giorni li ho passati in piangere le mie gravissime colpe. Nella santa Comunione poi, per mezzo del santo patriarca, era sollevato lo spirito da particolare orazione, e ammaestrata dal santo patriarca Ignazio, mio particolare protettore ed avvocato, maestro e padre; con molta ragione lo chiamo mio padre, perché mi ama quanto ama i suoi figli, lo chiamo mio maestro perché da lui la povera anima mia fu ammaestrata nella divina scienza, lo chiamo mio protettore ed avvocato, perché si degnò ottenermi dalla gran Madre di Dio il dardo celestiale della divina carità.

Questa grazia così particolare me la ottenne dal Signore senza che a lui mi raccomandassi, né tampoco si curò di farsi conoscere da me; ma qual padre amante non altro cercò che di beneficarmi. Fin dal principio incognito mi apparve e mi condusse sopra magnifico loggiato, come si è già riferito dal principio, nei fogli passati, a suo luogo.

27.2. Ho offerto la vita per ristabilire la Compagnia di Gesù


Riporto un fatto seguitomi nel 1804 di maggio, pochi mesi dopo che il santo patriarca mi aveva condotto al suddetto loggiato. Nuovamente mi apparve e mi si diede a conoscere per quello che egli era. Dopo avermi dato molti santi avvertimenti, riguardanti la vera dalla falsa devozione, si degnò di farmi baciare un anello preziosissimo, che teneva al suo dito. Questo glorioso santo fu quello che nel 1803, giorno dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, mi consegnò ai santi patriarchi Felice e Giovanni de Matha, e mi ottenne la grazia della Comunione quotidiana, come si è riferito a suo luogo nei primi fogli. Dai particolari favori che mi ha compartito in tutti i tempi questo glorioso santo, mi pare che non si possa dubitare che ami la povera anima mia non meno che i propri figli suoi.

La povera anima mia nutre nel cuore una carità molto particolare verso di lui e i suoi figli. Oh quante volte ho offerto al mio Signore il sangue e la vita, perché fosse ristabilita la sua religione: la Compagnia di Gesù!

27.3. Figlia diletta, cosa ti potrà negare l’infinito amor mio?


Il dì 31 luglio 1815 nella santa Comunione, così racconta la povera Giovanna Felice di sé: il mio spirito fu sollevato da particolare orazione, dove per mezzo del santo patriarca Ignazio mi fu dimostrato il particolare amore che Dio porta alla povera anima mia; a questa intelligenza lo spirito si infiammò di santo amore, e l’amore e la gratitudine mi necessitarono di fare offerte vivissime verso Dio, desiderando e protestando di patir volentieri mille inferni per avere il piacere di poterlo amare. Nel tempo in cui mi trattenevo in questi santi desideri, mi fu manifestato quanto mi manca ancora a perfezionarmi. Questo fu il sentimento che ebbi nel mio cuore, che mi resta ancora da vincere la carne e il sangue. Allora conobbi la cruda guerra che mi fa il maledetto amor proprio, unitamente alla mia misera natura, che non soffre senza pena gli impulsi della grazia, e che si oppone all’esecuzione delle buone ispirazioni.

A questa cognizione, così particolare, la povera anima mia inorridì, nel vedersi tanto miserabile, dopo tante grazie e tanti favori compartitimi dall’infinita bontà di Dio; ma il gran patriarca sant’Ignazio mi fece coraggio a sperare quanto mi fa bisogno per arrivare ad un alto grado di perfezione. Così prese a dire il Santo: «Non paventare, o anima redenta da Gesù Cristo, sarai vittoriosa di te stessa e dei tuoi nemici. Ascenderai ad un grado molto eminente di perfezione».

A queste sue parole la povera anima mia fu sopraffatta da fiducia vivissima, che dolcemente mi fece riposare in Dio, unica mia speranza. In questo riposo l’anima andava inoltrandosi nella celeste cognizione dell’infinito essere di Dio; in questa infinita vastità il povero mio intelletto si perdeva affatto nella cognizione di cose così perfette. Oh, come ardentemente amavo il mio Dio! lo amavo con tutte le forze, con tutta l’ampiezza del mio cuore. Di quale amore mi degnò il mio Dio non è spiegabile. Mi unì a lui intimamente, mi fece sperimentare i mirabili effetti della sua carità; si accese medesimamente all’amor di Dio una carità molto grande verso il mio prossimo, desiderando ardentemente di beneficarli, pregai umilmente per tutti.

«Molto giovevole sarà per loro la tua preghiera», mi disse il pietoso Dio, «tutti sperimenteranno l’efficacia di essa, più o meno, però, secondo il mio divino beneplacito, e la loro particolare disposizione».

A grazia così distinta la povera anima mia si umiliò profondamente, e piena di meraviglia, così esclamò verso il suo Signore: «Mio amorosissimo Dio, come mai vi degnate di accordare tanto ad una creatura tanto indegna come sono io? Vi siete dimenticato forse dell’enorme mio tradimento, mio pietosissimo Dio? Abbiate riguardo al vostro onore e alla vostra gloria, non abbassate tanto la vostra santità fino al profondo della mia malizia! Mio Dio, molto più mi è caro l’onore e la gloria vostra che il proprio mio vantaggio».

A questa mia protesta verace, così soggiunse l’eterno Dio: «Figlia secondo il mio cuore, sappi che non solo la tua preghiera sarà efficace ai tuoi prossimi, ma i tuoi buoni desideri saranno molto giovevoli per loro. Figlia diletta mia, cosa potrà negarti l’infinito amor mio?».

A queste amorose espressioni l’anima si umiliò profondamente, e stupefatta in se stessa, per il grande amore che Dio le dimostra, fui sopraffatta da dolcissimo profluvio di lacrime.

27.4. Le creature davanti a Dio sono come non fossero


Dal primo agosto 1815 fino al dì 10 del suddetto mese, così Giovanna Felice: il mio spirito in questi giorni ha goduto un particolare raccoglimento, dove l’anima si slanciava frequentemente verso il suo buon Dio, ora offrendogli tutto il mio cuore, ora piangendo le mie gravi colpe, ora ringraziandolo infinitamente della misericordia usata.

Il dì 11 agosto 1815, nella santa Comunione, dopo aver goduto un bene inenarrabile, fui sopraffatta dalla carità divina; e, annientata in me stessa, confessavo di non poter comprendere la divina carità; ma da nuovo raggio di luce fu illuminato il mio intelletto, per mezzo del quale Dio mi fece comprendere come tutte le creature dinanzi a lui sono come non fossero, e quanto mai si compiace di avermi da questo nulla sottratto, che tiene per bene impiegate la sua infinita potenza, sapienza e bontà.

A questa illustrazione di mente, l’anima si accese di santo amore, e, piena di gratitudine, si disfaceva di amore in lacrime, ma quando si era perduta affatto nella penetrazione dell’amore, ad un tratto detti uno sguardo a me stessa, senza però perdere quel bene che godevo, e conoscendo la mia cattiva corrispondenza e l’enorme mia ingratitudine, a questa riflessione fu tale e tanta la pena e il dolore, che credetti veramente di morire; e così in un momento passai dall’amore ad una viva contrizione.

Il dì 12 agosto 1815 pensai di fare un triduo alla gran Madre di Dio, acciò degnata si fosse di intercedermi presso il suo SS. Figliolo una rinnovazione totale di spirito, desiderando morire affatto a me stessa.

Il dì 13 agosto 1815, dopo la santa Comunione, il Signore si degnò, per mezzo del patriarca sant’Ignazio, il quale mi apparve qual padre amante tutto piacevole, pieno di gioia, mi mostrò un monte altissimo, e così prese a parlare: «Prepàrati», mi disse, «prepàrati, o vaga sposa di Gesù, fino alla sommità di quel monte ascenderai. Là ti aspetta il sommo Re, per coronarti di quel prezioso diadema che ti meritò con lo sborso del suo prezioso sangue. Oh, anima fortunata! non ti è possibile comprendere gli alti favori che ti comparte il sommo Dio, per mezzo del suo parziale amore».

27.5. L’abito trinitario rendeva l’anima mia più splendente del sole


Il dì 15 agosto fui con molta festa accompagnata da immenso stuolo di Angeli al suddetto monte. Ma prima di salire quella magnifica altura, Dio medesimo di propria mano si degnò vestirmi di ricchissime, preziosissime vestimenta, in queste venivano simboleggiati i preziosi meriti di Gesù Cristo, Signore nostro, con i quali Dio si degna di rivestire la povera anima mia, per così renderla oggetto delle sue alte compiacenze.

Spettatori di questo favore particolare furono i santi patriarchi Felice e Giovanni de Matha, miei particolarissimi avvocati e padri, il glorioso sant’Ignazio, il principe degli Angeli, san Michele, e immenso stuolo di spiriti celesti.

Descrivo la bellezza dell’abito. Era questo bianco candido, sopra di questo vi era un bellissimo adornamento in forma di croce, di color turchino e rosso; era questo abito tanto bello che rendeva la povera anima assai più risplendente del sole. Si degnò l’eterno Dio di donarmi ricca e fregiata corona, e di propria mano si degnò calcarla sopra il mio capo. Adornata che la ebbe Dio di questi preziosi vestimenti, si degnò mirarla con particolare compiacenza, e stringendola strettamente, la unì a sé intimamente, e l’anima mia restò propriamente medesimata in Dio, in una maniera che non posso esprimere.

In questo tempo persi ogni idea intellettuale, e restai tutta contenuta dall’infinito amor di Dio. Dopo qualche tempo tornarono ad agire le potenze dell’anima; allora, tutta accesa di santo amore, rivolta all’eterno Dio, gli dimostrai la mia carità. Qual dardo acceso che batte al segno e poi per l’attrazione della veemenza torna donde scoppiò, così il mio spirito tornò nelle onnipotenti mani di Dio, il quale si degnò di propria mano condurmi fino alla sommità del monte. Non sto qui a ridire i vivi affetti del mio povero cuore verso l’amante Signore, mentre sarà molto più facile a vostra riverenza degnissima il comprenderlo, di quello che sia facile a me spiegarlo.

L’amorosissimo Signore mi condusse per mano fino alla sommità del monte. Cosa dirò mai della magnificenza di questo? Pure dirò una cosa che dimostrerà la magnificenza di questo.

Mio Dio, degnatevi di illuminarmi, acciò possa manifestare, alla meglio che posso, le infinite vostre misericordie.

Alla sommità, nel centro di questo magnifico monte, vi era un ricchissimo, bellissimo trono, dove risiedeva la creatura più perfetta che abbia creato l’eterno Dio. Questa fu la notizia che ebbi da quei felici abitatori del santo monte. L’anima mia, a questa notizia, si profondò nel suo nulla, e umile e rispettosa adorò, ossequiò l’eccelsa regina del cielo e della terra, Maria Vergine santissima bellissima; qual maestra a tutti insegnava, qual regina a tutti comandava, qual madre pietosa a tutti compartiva il dolce latte della sua carità; immenso stuolo di vergini la corteggiavano, tutte erano riccamente vestite, ma ve n’erano certe tra le altre molto distinte. Erano queste adornate di uno splendore assai più bello di tutte le altre, queste assistevano all’augusto trono della divina Signora, queste bellissime donzelle facevano comune alle altre gli eccelsi sentimenti della loro sovrana, queste le passavano umili e rispettose le suppliche, queste nobilissime vergini vigilavano all’onore e alla gloria della divina imperatrice del cielo e della terra. Altri rispettabilissimi personaggi vi erano d’appresso al suo augusto trono, diversi dei quali furono da me conosciuti, tra questi c’erano i santi patriarchi Felice di Valois e Giovanni de Matha, e il patriarca sant’Ignazio, e molti altri, che non sto qui a nominare, solo nomino questi, perché mi si fecero incontro, e mi presentarono all’eccelsa regina, la quale si degnò di ricevermi con materno affetto.

Il favore della divina Madre non mi tolse il piacere della presenza del suo divin Figlio, lui stesso mi accompagnò all’augusto trono della diletta sua madre, e qual padrone espotico mi fece annoverare nel numero di quelle sante vergini. A grazia così grande il povero mio cuore, pieno di santo orrore, rinunziò la grazia. «O gran Regina», le dissi, «rinunzio a tal favore. Non c’è il vostro decoro! O Madre del santo amore, non curo il mio vantaggio, ma solo il vostro onore. Deh, vi sovvenga, o Madre, che al vostro divin Figlio io gli fui infedele».

Una dirotta pioggia di lacrime abbondanti scorrevano dagli occhi miei e mi rendevano viepiù amante della divina carità. A questa mia ripulsa la nobile sovrana così prese a parlare: «Figlia diletta mia, all’alto favore non devi rinunziare, non sei di disonore alla mia verginità. Il mio diletto Figlio ti volle annoverare nel numero di quelle che consacrarono a lui la loro verginità, e qual padrone espotico dei suoi preziosi doni, senza far torto a nessuno, a suo beneplacito li può donare a chi vuole».

Le sue dolci parole persuasero appieno il povero mio intelletto, e piena di rispetto, ringraziai l’alta bontà, e perduto affatto ogni uso di ragione, lo spirito si perdette nell’infinita carità, e stetti molte ore prima di rinvenire; ma, benché fossi tornata nei propri sensi miei, lo spirito restò estatico per ben tre giorni, e in mezzo alle faccende domestiche tornava ad esser privo di ogni sensazione.

Digressione. Il dì 14 settembre 1815 fu dalla povera Giovanna Felice trascritto il suddetto fatto seguitomi il dì 15 agosto 1815, dal piccolo giornale che usa tenere, per ricordare quanto passa nel suo spirito alla giornata. Confesso però che il più delle volte viene trascritto da me il suddetto giornale con diminuzione, e alle volte ancora occultate varie circostanze, che rendono più glorioso il favore ricevuto, ora servendomi di parole generiche, quando sono dirette al mio proprio spirito. Questo è stato praticato da me fino ad ora, per la grande confusione, umiliazione, annientamento che mi reca il manifestare le divine misericordie. Non è veramente possibile poter immaginare l’annientamento del mio spirito, quando per obbedienza devo manifestare i distinti favori, che a tutte le ore ricevo dalla bontà infinita di Dio. In questa occasione ho voluto confessare questa verità, per essere da Dio e da vostra paternità reverendissima assolta, promettendo da quest’ora in poi, di manifestare con verità e con chiarezza quanto passa nel mio spirito.

27.6. Salva dalla strada una zitella


Il giorno 14 dunque, dopo il pranzo, dopo aver scritto il suddetto fatto, mi portai con le figlie alla chiesa, per assistere ad un triduo ad onore di Maria SS. Addolorata. Prima di sortire dalla mia casa, ebbi una forte ispirazione di fare qualche elemosina ad una povera zitella civile, che per la strada chiedeva l’elemosina, e che in altra occasione, per ispirazione di Dio, gli ho somministrato.

A questa ispirazione il mio cuore ingrato chiuse le orecchie alla buona ispirazione; mi portai alla chiesa, mi si presentò per la strada la povera zitella, e la sua lamentevole voce mi fece compassione più del solito. In quel momento ebbi nuovo impulso di ritornare alla mia casa, per somministrarle qualche carità, ma restai perplessa, per essere l’ora tarda, dubitavo di non trovarmi in tempo al suddetto triduo; ma quando fui arrivata alla chiesa, appena inginocchiata, il povero cuor mio dalla grave pena non poteva respirare. In mezzo alla gran pena rifletto giustamente e trovo di aver mancato alla carità.

Oh, qual dolore acerbo mi cagionò nel cuore la mia crudeltà! Una pioggia dirotta di lacrime amarissime rimproveravano la mia crudeltà, e piena di terrore mi pareva di ascoltare i giusti rimproveri dalla divina bontà. Oh, cosa non soffrii di pena e di dolore! Chiedevo umile perdono alla di lui bontà, con fervide preghiere pregai il Signore, perché avesse provveduto alla povera zitella, ovvero me l’avesse fatta ritrovare. Terminata la funzione trovo la suddetta, tutta afflitta, la conduco alla mia casa e le somministro un poco di carità. Allora, piangendo mi disse che era nell’ultima disperazione. Presi a consolarla e mi confessò che era tentata di buttarsi a fiume. Mi disse che il suo padre era curiale e che per mantenersi fedele e costante per due anni continui, per non giurare, era andato ramingo per il mondo, e che era stato colpito da un colpo di apoplessia, ed era tanta la loro miseria che, per non avere neppure il letto, dovevano dormire sulla nuda terra, e l’infelice padre giaceva sopra un piccolo pagliaccio, che le fu somministrato per carità.

A racconto così lacrimevole procurai di sovvenire alla meglio sia lei che l’infelice padre infermo, languente per la fame. Subito feci fare un memoriale molto bene circostanziato, perché i superiori sapessero l’infelice stato della suddetta famiglia. Dopo essermi bene informata della verità da persone che li conoscono. Per mezzo d’interna illustrazione, Dio mi fece conoscere quale fu il fine per cui mi diede tanta premura di sovvenire la suddetta zitella: fu per liberarla dal grave pericolo a cui la misera era esposta in quella strada solitaria, e quel giorno medesimo avrebbe pericolato la sua onestà. Le povere mie preghiere allontanarono da lei il brutto mostro di iniquità, che la voleva sedurre.

A simile notizia dissi alla suddetta che io le avrei somministrato il vitto quotidiano per lei e per suo padre, ma che non si fosse più fermata per la strada a questuare, fintanto che i superiori avessero provveduto alle loro gravissime indigenze. E tutto questo si fece da me con l’approvazione del mio padre spirituale.