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25 – PREZIOSA GEMMA DAL CUORE DI MARIA


25.1. Tre gradi di umiltà


Il dì 21 maggio 1815 nella santa Comunione, il Signore si degnò donare alla povera anima mia tre gradi di umiltà. Per mezzo di questa grazia fui liberata da una certa inclinazione naturale, che tutti abbiamo al male. Le nostre anime non si avvedono chiaramente di questo, ma solo ne provano in sé i cattivi effetti. Questa cattiva inclinazione mi fu dunque mostrata sotto la forma di un animale bruttissimo; fu questo brutto animale messo in fuga dalla grazia di Dio, e così ne fui liberata.

Dal giorno 22 maggio a tutto il 3 dì giugno il mio spirito se l’è passata in piangere i propri peccati, desiderando ardentemente di convertirmi una volta davvero. Con gran fervore del mio cuore, piangendo e sospirando, chiedevo a Dio la grazia, sperando nei meriti di Gesù Cristo. Mi slanciavo a viva forza verso di lui, cercavo di far violenza al suo bel Cuore; da lume supremo veniva rischiarato l’intelletto, particolare cognizione mi dimostrava qual bene sia il possedere Dio di perfezione infinita.

A questa cognizione l’anima era presa da veemente desiderio di possederlo; quando da amore accesa andavo sospirando, e mi cresceva l’affanno e il bel desio di amar, con vivo desiderio cercavo di possedere l’amato mio tesoro; da ostacolo respinta ne venivo ognor, di quale affanno e pena era al mio cuore il non potermi al mio Signore avvicinare. Cosa non avrei dato per rimuovere l’ostacolo, la propria vita avrei sacrificato.

25.2. Prendi questa preziosa gemma


Ogni giorno più si faceva grande la pena mia, e anelante desideravo di possedere l’amato mio Signore. Finalmente, il 4 giugno dalla bontà di Dio fu rimosso l’ostacolo. Oh, come tutto ad un tratto là si slanciò lo spirito! Godei del sommo bene, con sommo contento del povero mio cuore; perché la pena mia era di non stare in grazia sua. Si degnò di accertarmi in quel felice istante, il suo cuore amante di intima unione mi favorì. La sua nobile voce mi fece udire, non con parole, ma in una maniera che io non so dire. Queste parole significò: «Sorella mia sposa, il cuor mi hai ferito! Amante ti invita, chi ti ama, ad amar».

A queste sue parole si accese nel mio cuore una viva fiamma di celestiale amore. Qual gioia, qual gaudio inondò il mio cuore, non è possibile poterlo ridire. L’anima mia, piena di affetto di dare all’amore qualche compenso, ma nel vedermi tanto meschina, mi volgevo tutta fiducia alla Madre divina e a lei cercavo il suo santo amore, per poter amare il mio Signore. Questa divina Madre mi volle consolare, prese dal suo nobil cuore una preziosa gemma, e la pose nel mio cuore; piena di amore mi disse: «Prendi, o diletta figlia, questa preziosa gemma; è questa una scintilla della mia carità. Non altro devi fare che cooperare al dono, molto potrai amare l’immensa maestà».

A queste sue parole la gemma si distese, e padrona si fece del povero mio cuor. Oh, forza prodigiosa, tu mi rapisti il cuore e arder lo facesti del tuo santo amore! Oh, come in quel momento più non si distingueva il mio dal suo bel cuore! In quel felice momento partecipai della sua carità. Se poi dovessi dire i prodigiosi effetti che sperimentai nel cuore e nelle mie potenze, padre, io non lo so quali fossero, per la sublimità, solo le posso dire che il celeste fuoco spandeva nel mio cuore dolcezza e soavità.

25.3. Le gravi afflizioni della Chiesa


Il dì 7 giugno 1815, nella santa Comunione, fui condotta in solitario luogo, dove fui notiziata delle molte afflizioni che dovrà soffrire la nostra santa Madre, la Chiesa. Oh, quante pene! oh, quante dovremo noi patire! Dio vuole rinnovare tutto il mondo. Questo non si può fare senza una grande strage. Padre mio, è meglio tacere che parlare di questo.

Il dì 7 giugno 1815, giorno del ritorno del nostro Santo Padre in Roma, tutta la città era in grande allegria. E il mio spirito era in grande malinconia. Mi fu dimostrato, come già dissi, le gravi afflizioni che dovrà patire la nostra Madre, la santa Chiesa, da quelli che sotto nome di bene e di vantaggio cercano di rovinarla, per esser questi lupi rapaci, che, sotto il manto di agnelli, cercano la sua totale distruzione. Questi, sebbene non lo compariscono, sono acerrimi persecutori di Gesù crocifisso e della sua sposa, la santa Chiesa.

Mi pareva dunque di vedere tutto il mondo in scompiglio, particolarmente la città di Roma. Conoscevo la varietà delle false opinioni che si nascondono sotto il manto della vera religione cattolica. Conoscevo la diversità dei partiti, i quali cospiravano gli uni contro gli altri; questi miseri si laceravano nella fama, si vituperavano nell’onore, si ammazzavano senza pietà.

Cosa dirò poi del sacro collegio? Questi per le varie opinioni erano chi dispersi, chi distrutti, chi spietatamente uccisi. In simile guisa e anche peggio era trattato il clero secolare e la nobiltà. Il clero regolare poi non soffriva la totale dispersione, ma era decimato di numero. Molti e senza numero erano gli uomini di ogni condizione che perivano in questa strage, ma non tutti erano riprovati. Molti erano uomini di buoni costumi, e molti altri di santa vita. Il mondo era in gravissima desolazione; il piccolo gregge di Gesù Cristo porgeva infuocate preghiere all’Altissimo, acciò degnato si fosse di sospendere tanta strage e tanta rovina. Ai voti di questo piccolo numero cessava la strage per parte degli uomini e incominciava quella per parte di Dio.

Il cielo si ammantò di nera caligine, scoppiando i fulmini più tremendi, dove incenerivano, dove bruciavano: la terra, non meno che il cielo, era sconvolta. I terremoti più orribili, le voragini più rovinose facevano le ultime stragi sopra la terra. In questa guisa furono separati i buoni cattolici dai falsi cristiani. Molti di quelli che negavano Dio lo confessavano e lo riconoscevano per quel Dio che egli è. Tutti lo stimavano, lo adoravano, lo amavano. Tutti osservavano la sua santa legge. Tutti i religiosi e religiose si sistemavano nella vera osservanza delle loro regole. Il clero secolare era l’edificazione della santa Chiesa. Nelle religioni fiorivano uomini di molta santità e dottrina, e di vita molto austera. Tutto il mondo era in pace. Scritto per obbedienza.

25.4. Un cammino afflittivo


Il dì 7 giugno 1815, nella santa Comunione, racconta la povera Giovanna Felice: mi ha fatto il Signore intraprendere un cammino molto disastroso e afflittivo, che contiene vari travagli, riguardanti lo spirito. Questa strada conduce l’anima ad un grado di perfezione molto eccellente. Questa strada, dunque, contiene tre gradi di unione molto particolari. Molti sono i travagli che si devono soffrire in questa strada; ma particolari sono gli aiuti che il Signore si degna di dare.

Il giorno 7, 8, 9 e 10 giugno 1815 sperimentai nel mio spirito le pene più gravose che possono mai ridirsi: desolazioni, aridità, mestizia, tristezza, le angustie più afflittive, particolarmente ho sofferto una pena tanto grande che io non so ridire, ma mi pare che si possa chiamare smarrimento di spirito, perché sperimentavo in me quella pena, quella afflizione che si è soliti sperimentare da un viandante, quando nel buio della notte si è smarrito in una tetra selva. Il ruggito degli animali selvatici gli reca terrore e spavento, le rovinose balze gli rendono penoso il cammino, i pericoli imminenti di cadere l’affliggono, da ogni intorno non altro trova che immagini che la spaventano, non sa a quale partito appigliarsi, se fermarsi ovvero camminare; ma come camminare, se le rapide acque dei laghi vicini mi attraversano il cammino e fanno prova di sommergermi? Il cuore angustiato gli manca il coraggio di proseguire il viaggio; la povera anima mia, piangendo e sospirando, si volge al suo Dio piena di affetto gli dice: «Mio Dio, mio Dio, che luogo è questo mai, che luogo è questo?».

A questa mia domanda, si sentiva rispondere sovrana voce, che nel silenzio del luogo selvatico faceva eco, così dappertutto si sentiva risuonare: «Figlia, cosa paventi? Io sono con te: prosegui con santo ardire il tuo viaggio; questo ti conduce al termine. Mira, o diletta mia figlia, l’alto grado di perfezione che ti aspetta, fissa il tuo sguardo colà e troverai conforto».

A queste parole fissai lo sguardo nell’alto dei cieli, cosa vidi mai, io non lo so dire. Questa bella vista bastò per consolare il mio cuore, angustiato da mille pene, come già dissi; ma quello che più mi affliggeva era che andavo per camminare e non potevo, cercavo la luce e non la trovavo, piangevo, mi affliggevo, mi affaticavo, e viepiù smarrita mi trovavo, chiamavo il mio Dio e non mi ascoltava, ma fissato che ebbi lo sguardo colà, non più gravoso fu per me questo cammino, ma dolce e soave lo rese quel termine che Dio mi mostrò. Là, là è sempre fisso il mio sguardo.

25.5. Trasformata in Dio


Il dì 15 giugno nella santa Comunione il mio spirito si ritrovò nella strada anzidetta, mi affaticavo proseguendo il mio viaggio, come già dissi. La povera anima mia invocava ardentemente il suo Dio, pregandolo a volersi manifestare per dare al mio spirito qualche conforto. Si degnò il buon Dio di esaudire le mie povere preghiere, e mi degnò di grado molto particolare di unione. Mio Dio, e come potrò io, miserabile senza talento, manifestare i prodigi più grandi del vostro amore infinito?

Si degnò dunque, per sua bontà, di unirmi a sé intimamente. In quel felice momento impresse nel mio spirito una viva immagine di se stesso; a questa impressione eccomi in un momento trasformata in Dio. Oh, cosa mai sperimentai nelle potenze dell’anima mia, io non lo so ridire, ne lascio al saggio intendimento di vostra riverenza degnissima il poterlo comprendere. Quello che posso dire, per non mancare all’obbedienza, si è che fu tale e tanta l’effusione della grazia, tanto grande l’amore che mi trasfuse Dio in quel felice momento, molto grande fu la giustizia che mi donò; la purità, l’umiltà, la semplicità gareggiavano nel mio cuore, per rendere onore e gloria al mio Signore. Offrivo gli alti meriti del mio caro Gesù, ma questo si faceva da me in una maniera molto particolare, in virtù di quella grazia infusami.

Molto gradì l’eterno Dio la mia orazione e la valevole offerta degli alti meriti di Gesù, che fissò lo sguardo in quelle virtù anzidette, che adornavano la povera anima mia, che mi aveva donato nella suddetta unione, riguardandole non come mie, ma come opere sue proprie. Fissò dunque il suo sguardo in quella prodigiosa purità, che si è degnato donare alla povera anima mia, a confronto dello stato coniugale, come è noto a vostra paternità, e mi chiamò «eroismo della sua grazia». Se questa virtù, che si degna di darmi il Signore, per pura sua misericordia, meriti il nome di eroismo, lascio a vostra riverenza giudicarlo, sapendo molto bene di qual calibro siano i continui prodigi che mi fa il Signore su di ciò.

Dal giorno 15 fino al giorno 22 giugno 1815 il mio spirito è andato camminando per la suddetta strada. Si va di giorno in giorno avanzando in questo penoso cammino; ma, affidata alla particolare protezione di Dio, si fa coraggio, soffrendo con rassegnazione le pene interne ed esterne, tenendo fisso lo sguardo a quel termine che mi mostrò nel farmi intraprendere il suddetto viaggio. Non so dire se questo termine sia per me il termine della vita, ovvero il termine di quella perfezione a cui Dio, per sua infinita bontà, ma ha destinata fin ab aeterno. Oh, come l’anima mia a questi riflessi si accende di santo amore, e va estatica ripetendo: «Mio Dio, fino ab aeterno mi amasti! O amore, o eccesso, o carità!».

25.6. Orribile tentazione contro la fede


Il dì 23 giugno 1815, vigilia del gran precursore san Giovanni, dopo il pranzo, nel visitare il SS. Sacramento, mi fermai in questa visita circa due ore e mezzo, un’ora la passai in sopportare le pene più tormentose che mai dir si possa. La tristezza, la smania, l’affanno, l’angustia facevano prova di sommergermi. Mi sentivo mancare, mi sentivo venir meno dalla gran pena. Arrivato che fu lo spirito ad un punto tanto eccessivo che non poteva più reggere, tutto ad un tratto nacque in me una quiete veramente prodigiosa, unitamente ad una cognizione vivissima di me stessa. Presa dunque da umile sentimento, mi annientavo fino al profondo abisso del mio nulla, conoscendo i miei cattivi portamenti, piangevo amaramente i miei peccati, e ne domandavo a Dio perdono.

Nel tempo che mi trattenevo in questi umili sentimenti, mi sono trovata nella strada anzidetta, dove vidi magnifico fabbricato. Si affaticava la povera anima mia per giungere al magnifico fabbricato; macché! fui assalita da orribile tentazione contro la santa fede. Mi assalì in una maniera tanto terribile, che poco mancò che non restassi vinta. Superata e vinta, con la grazia di Dio, la tentazione, l’anima mia si avvicinò a quel magnifico fabbricato anzidetto. Ecco nuovamente il tentatore con nuove suggestioni m’impediva a tutto suo costo di potermi avvicinare al magnifico fabbricato. Il maligno tentatore mi dava ad intendere che quel luogo era luogo di superstizione e d’inganno. «Fuggi», mi diceva, «fuggi, non entrare, che resterai ingannata!».

Alla suggestione del maligno, il mio spirito incominciò a paventare, perché subito non si avvide che era il tentatore. In mezzo a questa dubbiezza, lo Spirito del Signore mi accertò del vero, e l’anima mia restò illuminata, e il tentatore nemico fuggì precipitosamente.

Da mano invisibile fui trasportata nel magnifico fabbricato. Questo nobilissimo luogo si chiama «mansione del Signore», dove Dio si degna comunicarsi alle anime sue predilette, che si degna di introdurre colà, non per merito proprio, ma per solo amore di benevolenza particolare. La povera anima mia conosce benissimo questa verità; questa cognizione mi è molto giovevole per profondamente umiliarmi. Vostra paternità m’insegna che non c’è cosa che più possa umiliar l’uomo che l’essere beneficato senza merito. Mio Dio, quale umiliazione è per me il vedermi da voi favorita, avendo io demeritato la vostra grazia con tanta ingratitudine. L’essere da voi contraddistinta con tante grazie, mi cagiona un continuo annientamento di me stessa. E benché debba confessare gli alti favori che da voi ricevo con tanta frequenza, pur nonostante l’anima mia neppure ad una sola creatura si preferisce, ma con tutta la sincerità del cuore confessa di essere la creatura più vile che abita la terra.

Questa cognizione mi fece ricusare di entrare nella suddetta felice mansione. Pregai caldamente il Signore che non mi avesse introdotto in quel luogo, perché dubitavo di oscurare la sua gloria, ma che in mia vece avesse condotto quelle anime che sono a lui fedeli, protestandomi che avrei tenuto per sommo favore di abitare il luogo più vile della terra, per piangere le mie colpe.

Questa mia confessione non raffreddò l’infinito suo amore, ma servì per renderlo più amante di me. Il mio Dio mi introdusse dentro la felice mansione, con sommo contento del suo amore.

Entrata che fui in questo luogo, sperimentai in me gli affetti più vivi della carità di Gesù Cristo. Il gaudio, la dolcezza inondava la povera anima mia; per speciale favore fui consegnata al gran precursore Giovanni, custode di questa felice mansione. Il santo precursore era tutto ammantato di luce, tutto intento a custodire questo luogo; mi ricevette qual sposa di Gesù Cristo. Grandi furono gli onori che ricevetti dal santo, e da molti santi Angeli, che quivi erano. Con gran festa e trionfo mi accompagnarono in un magnifico angolo della suddetta mansione; il santo precursore, dopo avermi dato i documenti più parziali dell’amore di Dio, disparve, lasciando il mio spirito ripieno di carità, e notiziato dell’alto favore che Dio era per farmi, per sua infinita bontà.

L’anima mia a questa notizia esultò, e umile e mansueta stava aspettando il felice momento di abbracciare l’amato suo sposo, per potersi con lui perpetuare. Passai tutto il dì 23 suddetto, desiderando ardentemente il felice momento di potermi unire al mio buon Dio; per essere, in virtù della sua grazia, totalmente in lui trasformata. Si andava preparando il mio povero cuore con replicati atti di fede viva, di speranza certa, di carità ardente; il desiderio veemente mi teneva fuori di me stessa: operavo sensibilmente per abito, mentre mi mancava la riflessione di tutto ciò che cadeva sotto i miei sensi.

La povera anima mia se ne stava fissa all’angolo suddetto, aspettando l’amato suo bene, e impaziente aspettava il felice momento di poterlo abbracciare. Finalmente il dì 24, mi degnò il mio Dio di una unione tanto intima, tanto particolare, che io non ho termini per spiegare cosa così sublime, cosa così parziale. Dico parziale, perché Dio medesimo così la chiamò. Quello che posso dire è che, dopo la suddetta comunicazione, la povera anima mia restò tanto innamorata di Dio, che tiene sempre il suo sguardo fisso colà dove le si comunicò.