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22 – DONATEMI LA PERFEZIONE O FATEMI MORIRE!
Dal
dì primo febbraio 1815 fino al dì 6 del suddetto mese, il mio spirito
si è trattenuto in conoscere i propri difetti, e nella cognizione di se
stessa annientandosi, umiliandosi e confondendosi nel proprio nulla,
piangendo amaramente le mie gravissime colpe, con abbondanti lacrime,
che dalla grazia di Dio mi venivano compartite, per così purificare la
povera anima mia.
Nelle orazioni e Comunioni dei suddetti
giorni, si accresceva viepiù questa cognizione, e, detestando
veracemente il mal fatto, desideravo ardentemente la perfezione. In
questo tempo che il mio spirito si tratteneva in questi desideri, Dio
gli dava a conoscere la differenza che passa dalle opere perfette alle
imperfette. Oh, che gran diversità!
A questa cognizione,
scolpivo chiaramente quanto sono lontana dalla vera perfezione, quando
giustamente avevo ponderato qual fosse la vera perfezione, dando uno
sguardo a me stessa, mi riconoscevo per la creatura più imperfetta, più
ingrata che abita la terra; e, piangendo e sospirando amaramente, piena
di fiducia nei meriti di Gesù, a lui mi volgevo piangendo dirottamente,
lo pregavo incessantemente a volersi degnare di darmi la perfezione, la
corrispondenza all’infinito suo amore, offrendomi a patire ogni
qualunque pena per ottenere la grazia bramata.
Così andava
dicendo la povera anima mia al suo Signore: «Mio Dio, mio amore, vi
offro il sangue e la vita, donatemi il vostro amore, datemi la
corrispondenza, donatemi la perfezione. Pongo ogni mia speranza in voi,
mio bene, mio amore: o donatemi la perfezione, o fatemi morire!
Scegliete a vostro talento quello che più vi piace. Gesù mio, vi chiedo
la grazia per il solo vostro onore, per la vostra sola gloria. Rinunzio
a tutti i vantaggi che mi porta il conseguimento della grazia; voglio
diventar perfetta per potervi piacere. Gesù mio, non posso più soffrire
di vedermi ingrata al vostro amore».
Intanto per parte di
interna cognizione, lo spirito andava penetrando con somma apprensione
quanto grande sia la mia ingratitudine, per non corrispondere alle
tante grazie che mi va facendo Dio, per pura sua misericordia.
Conoscendomi meritevole di mille inferni, chiedevo al mio Dio pietà e
misericordia. In questa guisa si va struggendo la povera anima mia
verso il suo amato bene, non cercando, non bramando altro che amore per
pagare l’eterno amore.
22.1. Dio unì a sé la povera anima mia
Il
giorno 6 del corrente mese di febbraio 1815 nella santa Comunione, così
Giovanna Felice: dopo aver pianto amaramente i miei peccati, vennero
meno le potenze dell’anima mia. Per il dolore della eccessiva
contrizione, che mi compartiva Dio, perso ogni uso di ragione, credetti
veramente di essere estinta.
Nel tempo che mi trovavo in questa
situazione, mi apparvero molti santi Angeli, e presomi leggiadramente,
mi condussero in luogo molto eminente, e fattomi intorno corona con
sommo rispetto e modestia mi adagiarono sopra prezioso tappeto, posero
sotto il mio capo preziosissimo cuscino, mi attorniarono di preziosi
adornamenti. La povera anima mia nel vedersi così adornata si umiliava
profondamente, e confessava sinceramente la sua viltà, e piena di
ammirazione, domandò ai santi Angeli qual fosse il motivo di tanto
adornarmi, mentre io mi riconoscevo, per i miei peccati, meritevole di
mille inferni. Questi graziosamente mi fecero intendere che quegli
adornamenti mi si dovevano per essere io consacrata a Dio, per mezzo
dei santi voti e buoni propositi fatti, questi mi rendevano amica
dell’Altissimo, che in quel ricco cuscino, che sosteneva il mio capo
veniva significata la retta intenzione e la purità del cuore. Pieni di
rispetto e riverenza, ammiravano in me la grande opera del Signore,
lodavano il suo santo nome.
In questo tempo si aprirono i
cardini del cielo, e rapidamente scese dalla sommità di questo l’eterno
Dio, e con i suoi splendori investì la povera anima mia e la unì a sé,
con ammirazione grande di quei beati spiriti, che furono spettatori di
questo eccelso favore.
L’amante Signore mi fece intendere che mi
fossi preparata a ricevere altra grazia molto distinta. Ricevuto che
ebbe questo favore, la povera anima mia si accese di viva fiamma di
carità, e sollevandosi verso l’amato bene, che con i suoi splendori
l’aveva ferita, si struggeva tutta nell’ardente fiamma della sua
carità, desiderando perpetuarsi con lui.
Oh, la dolce
impressione che ricevette il mio cuore in questa unione! Questa fu una
disposizione alla segnalata grazia che era per compartirmi il mio
Signore. In mezzo a questo incendio il mio spirito restò in somma
quiete. In questo tempo mi apparve la bella anima della signora Anna
Maria, ammantata di splendida luce, il suo volto manifestava la sua
purità, la sua carità. Oh, quanto era mai bella! Graziosamente mi parlò
e mi disse che avessi amato Dio, che ne era ben degno per il grande
amore che mi porta, e che preparata mi fossi a ricevere dall’infinito
suo amore una grazia ben grande. Ciò detto disparve, lasciando nel mio
cuore una gioia, un contento molto grande.
22.2. La profonda ferita dell’amore
Il
dì 7 febbraio 1815, così racconta di sé la povera Giovanna Felice.
Nella santa Comunione fui trasportata in luogo molto eminente, mi fu
permesso di penetrare i preziosi gabinetti del Re supremo. Lui stesso
si degnò farsi incontro all’anima mia, per accompagnarla nel suo
tabernacolo, per unirla a sé dolcemente. Che cosa sublime! che cosa
eccelsa è mai questa!
Introdotta che fu l’anima mia nel
tabernacolo del Signore, fu sopraffatta da sublime virtù. Poco e niente
so spiegare i mirabili effetti che produssero in me queste sublimi
virtù. Al momento fui rivestita di giustizia, che mi rendeva per
partecipazione simile all’amato mio bene, per parte di scambievole
compiacenza divenne l’anima mia una stessa cosa con lui.
Il dì 7
febbraio 1815, ultimo giorno di carnevale, così Giovanna Felice; il
giorno dopo il pranzo mi portai a santa Maria Maggiore a visitare il
SS. Sacramento esposto, mi trattenni due ore e mezzo. In questo tempo
il mio spirito fu nuovamente condotto nei segreti gabinetti del supremo
Re. Introdotta che fui in questo prezioso luogo, che non so descrivere
per la sua sublimità, l’anima mia, ebria di amore, tutta ansiosa
cercava, per gli ampli spazi di questo divino luogo, l’amato suo bene.
Tanto
era profonda la ferita dell’amore, che nelle surriferite unioni aveva
ricevute dal dolce strale dell’amato, che mortalmente l’aveva ferita,
dico mortalmente ferita, perché l’anima mia morta ad ogni altro bene,
non solo terrestre, ma ancora celeste, non sapeva prendere alcuna
compiacenza in questo vastissimo, magnificentissimo luogo, ma qual
cerva ferita, bramosa solo della perenne fonte del Salvatore, a lui
solo erano rivolte le mie premure, il mio cuore non restò appagato né
per la magnificenza del luogo, né per il grande onore che ricevetti da
quei felici abitatori, che tutti a piena voce si congratulavano con me,
lodando e benedicendo il Santo dei santi, miravano l’anima mia qual
trionfo dell’infinita misericordia, e pieni di gioia invitavano le
gerarchie angeliche a lodare e benedire il Signore, Dio degli eserciti;
ma l’anima mia neppure in queste sonore lodi prendeva compiacenza, ma
tutta assorta in Dio, cercava l’occhio del bel sole di giustizia.
«Mio
Dio», diceva l’anima mia, «a me non basta vedere i vostri splendori; ma
desidero e voglio essere stemperata, liquefatta dai cocenti raggi di
voi, bel sole di giustizia!».
Intanto l’anima mia andava
struggendosi di amore verso l’amato suo bene, e, non potendo più
sostenere la forza dell’amore, si adagiò sopra prezioso sgabello. Ecco
dunque che è apparso il divin Salvatore, circondato da molte schiere
angeliche, tutto amore verso di me si andava approssimando. L’anima
mia, alla vista del suo diletto, si andava liquefacendo di amore, e,
annientata in se stessa, fu sopraffatta da amoroso deliquio.
22.3. Un prezioso anello
In
questo tempo che l’anima mia era in questa situazione, l’amante Signore
pose sopra di me preziosi vestimenti di color bianco, adorni di
preziose gioie, pose sopra il mio capo candido e lungo manto, tutto
trasparente di luce, pose al mio collo preziosa collana, e sopra al mio
capo preziosa corona. Dopo avermi così adornata, guardandomi
amorosamente, fissava sopra di me le sue caste pupille, donò all’anima
mia una purità angelica.
Nel vedermi così adorna e così pura,
preso da veemente amore, sollecitamente a me si approssimò, e
percuotendomi dolcemente: «Surge», diceva, «surge amica mea et veni!».
A
questo invito l’anima mia, con somma agilità, andò appresso al suo
diletto. Oh, amor grande ed infinito! e chi lo crederebbe? Stese il suo
braccio destro, e si degnò appoggiare l’anima mia, e amorosamente la
condusse nel prezioso suo tabernacolo, dove, alla presenza di immense
schiere angeliche, si degnò donare all’anima mia prezioso anello, per
così stringere con questa indissolubile matrimonio. Si levò poi dal suo
collo preziosa collana e la pose al mio collo, e levando dal mio la
collana che già mi aveva donato, la pose sopra il suo, mi fece
intendere che questo cambiamento di collane dimostrava l’unione delle
nostre volontà, e promettendo di concedermi quanto sono per
domandargli, mi fece passare a godere i buoni effetti di questo vincolo
indissolubile di carità.
Il divin Salvatore apparve in questo
luogo pieno di magnificenza, non già nudo, coperto di piaghe, ma qual
Re del cielo e della terra, era riccamente vestito. Il suo santissimo
capo era adorno di nobile cimiero, che lo dimostrava qual forte
guerriero, vincitore dei suoi spietati nemici. Portava prezioso manto,
ricamato, adornato, di infinito valore; in questo veniva significata la
sua infinita misericordia. Era questo di smisurata grandezza, per
dimostrare che tutte può ricoprire le miserie nostre, purché con cuore
contrito e umiliato volontariamente a lui facciamo ricorso. Il suo
vestimento era di color rosso, e in questo veniva significata la sua
carità; impugnava nella mano destra ricchissimo scettro, e questo aveva
due differenti figure: in una veniva significata la giustizia, e
nell’altra la sua clemenza. Portava al collo preziosa collana, e in
questa veniva significata la bella sua volontà.
22.4. Amore trasformante
Il
dì 8 febbraio 1815 così Giovanna Felice: subito levata nella orazione,
così Giovanna Felice terminata l’orazione preparatoria, la povera anima
mia si sollevò rapidamente verso il suo Dio, che con le braccia aperte
ansioso stava aspettando la povera anima mia, per accoglierla nel
paterno suo seno, per fargli godere il raccoglimento più intimo che mai
dir si possa.
In questo straordinario raccoglimento l’anima mia
andava formando atti vivissimi di fede, di speranza, di carità, di
umiltà; queste ed altre virtù furono esercitate dall’anima mia in un
grado molto perfetto, per la grazia che mi veniva da Dio somministrata.
In questo breve tempo molto meritò l’anima mia senza pena, senza
sollecitudine, senza molteplicità di parole, ma in profondo silenzio
andava compiacendo l’oggetto amato. Con questa quiete di spirito, mi
portai alla chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, mi accostai al
sacro altare per ricevere la santa Comunione, e intanto viepiù andava
crescendo l’interna quiete; quando sono stata prossima a comunicarmi,
ho veduto i santi patriarchi Felice e Giovanni che unitamente a due
santi Angeli, che portavano due torce accese nelle loro mani, si
presentarono al sacro altare, i santi patriarchi spiegarono prezioso
drappo di oro finissimo, che tenevano nelle loro mani ad uso di
asciugatoio, e accompagnando il sacerdote, che mi doveva comunicare,
distesero il suddetto drappo, pieni di rispetto e venerazione di sì
alto sacramento lodavano e benedicevano Dio. Qual bene apportò alla
povera anima mia non è spiegabile, mentre in quel prezioso momento i
santi patriarchi mi comunicarono la loro carità, per quanto ne fui
capace, e unendo il mio povero spirito al loro sublime spirito, mi
presentarono all’eterno Dio, offrendomi la loro valevole protezione.
L’essere così unita a questi gloriosi santi mi apportò un bene molto
grande, il mio cuore fu riempito di ardente carità, mi ottennero da Dio
un bene che io non so manifestare, mi pare che si possa chiamare amore
trasformativo, perché fu trasformata l’anima mia in Dio, in una maniera
che non è spiegabile. Felice me, se questa trasformazione fosse stata
durevole! Non più sarei creatura fragile, ma bensì un serafino di
amore! Questo bene durò in me ventiquattro ore.
22.5. Tu mi hai ferito!
Dal
giorno 9 fino al giorno 16 febbraio 1815 dice di sé la povera Giovanna
Felice: il mio spirito, annientato in se stesso, ricevette da Dio molto
lume di propria cognizione, e sopraffatto da santo timore, va
domandando al suo Signore se si salverà. Tanto è penetrato e intimorito
dalla giustizia di Dio! Piange giorno e notte la sua ingratitudine.
«Mio Dio», va frequentemente dicendo, «è possibile che vi sia creatura
più maliziosa di me sulla terra, che vi contrasti il conseguire il fine
per cui la beneficate? Eppure, chi lo crederebbe? io sono quella
ingratissima creatura, che contrasta al Creatore il conseguire il fine
per cui tanto mi benefica: qual è di santificare la povera anima mia e
renderla perfetta. Quale umiliazione, quale confusione è la mia, mio
Dio, degnatevi di usarmi misericordia».
In queste ed in altre
maniere andava struggendosi di amore in lacrime e si tratteneva in
profonda mestizia; ma, nonostante tutta questa afflizione, il mio
spirito conserva una pace, una tranquillità molto grande, perché la
propria cognizione non mi toglie una fiducia vivissima nei meriti di
Gesù Cristo, sicché questa pena, questa afflizione non la cambierei per
qualunque altro bene, tanti sono i buoni effetti che produce in me,
compiacendomi in queste stesse pene, per così dare una qualche
soddisfazione all’amato Signore mi do volontariamente in preda al
dolore e all’afflizione, acciò questa faccia crudo scempio di me e
purifichi il mio cuore, acciò possa piacere all’amato Signore.
Il
dì 16 febbraio 1815 così racconta di sé la povera Giovanna Felice:
nella santa Comunione il mio spirito, sorpreso da dolce riposo, al
momento passò da questo stato di afflizione in uno stato di gioia e di
contento; quando da lungi vidi apparire l’amato Signore ferito. La
povera anima mia, tutta piena di affetto, gli si fece incontro, e con
premura e sollecitudine gli disse: «Gesù mio, e chi mai ha così ferito
il vostro cuore?».
Il buon Signore, sorridendo e mirando con molta compiacenza la ferita, mi disse: «Tu, mia diletta, tu mi feristi!».
Le
sue parole incendiarono il mio cuore di santo amore, e piena di santo
affetto gli chiesi in grazia che si fosse degnato di ferire il mio
cuore, e ne riportai la certa speranza di ottenerne, a suo tempo, la
grazia.