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12 – TRA LE BRACCIA DEL MIO DILETTO
12.1. Le anime del Purgatorio
Il
giorno 17 aprile 1814 così racconta la povera Giovanna Felice di sé.
Ero tutta intenta a piangere i miei peccati, quando, sorpresa da
interna pace, mi apparve la santa anima di Anna Maria. Mi disse che non
differissi a suffragare quell’anima del defunto giovane, mentre che
apparso mi era. Il 23 del suddetto mese, sollecitamente avessi fatto i
tre digiuni e le discipline a sangue, come il suddetto mi disse, e per
muovere la mia carità mi condusse in un luogo dove mi fece vedere i tre
stati in cui si ritrovano le anime purganti.
Vedevo dunque un
luogo grandissimo, con tre divisioni. In una di queste non vedevo
fuoco, ma solo un albore, che faceva agli abitatori di questa
desiderare ardentemente il bel sole di giustizia.
Nella seconda divisione vedevo fuoco unito a preziosa rugiada, che mitigava l’ardore di quelle fiamme.
Nella
terza divisione vedevo fuoco caliginoso, unito a zolfo e bitume, in
maniera tale che pareva come un lago di fuoco, senza veruno esalamento.
Vidi tre demoni, che rabbiosamente erano tutti intenti a soffiare a
quel fuoco, come ministri della divina giustizia; vidi tre angeli che
ricordavano agli abitatori di questo luogo la misericordia di Dio,
questi sono privi di suffragio, dove si ritrovava il giovane defunto;
per mezzo di queste tre piccole mortificazioni si spera possa passare
nella seconda divisione, per partecipare dei suffragi dei fedeli.
Ho
comandato varie volte, che Giovanna Felice così racconta. consegnai
certi scritti al mio confessore, appartenenti al mio spirito, ma
siccome il suddetto mi ha comandato di non tralasciare né diminuire
quanto passa nel mio spirito, quando vengo favorita dal Signore, trovo
questi scritti viziati dal mio soverchio timore, mentre quando sono per
manifestare le misericordie che il mio Signore si degna farmi, dubito
di oscurare la sua gloria, riconoscendomi affatto indegna di ricevere
simili favori.
A questo oggetto il più delle volte per
l’addietro ho sempre diminuito il racconto, ora servendomi di termini
meno fioriti, che avessero meno espressione di quello che era in
realtà, ora tacendo certe circostanze ed espressioni; che rendono il
giusto senso alle grazie che mi compartiva Dio.
12.2. Dieci giorni senza comunione?
La
mattina del 15 del suddetto mese il mio confessore mi restituì il
suddetto foglio, e mi disse che in quello troverò scritti i suoi
sentimenti. Ai piedi del foglio così trovai scritto: «Ho comandato
varie volte a Giovanna Felice che dica tutto, e niente tralasci; quando
mi dà fogli con racconti tronchi, o non dice varie circostanze, che
crede doversi dire, stia dieci giorni senza Comunione».
Nel
leggere quelle parole «dieci giorni senza comunione», volli veramente
morire, mentre la pena non mi faceva capire il giusto senso, tornavo a
rileggere e non sapevo discernere se fosse castigo, ovvero minaccia.
Tra il timore e la speranza, sollecitamente scrivo un biglietto al mio
padre per sapere precisamente se castigo o minaccia fosse la sua
espressione, per dare qualche sollievo all’affannato mio cuore, ma non
potei avere alcuna risposta. Passai dunque tutto il resto della
giornata piangendo, sospirando.
«E come sarà possibile», andavo
dicendo, «che possa reggere senza morire dieci giorni lontano da voi,
sacramentato mio bene, se voi, o mio diletto, siete il mio tutto?».
Piangendo
dirottamente, chiedevo in grazia al mio Dio, che mi avesse castigato
altrimenti, ma che non mi avesse privata di poterlo sacramentalmente
ricevere. Così andava struggendosi il mio cuore tutto il giorno e parte
della notte, piangendo e sospirando.
La mattina di buon’ora mi
porto al mio confessore, piena di timore, credendo sicuramente di
sentirmi confermare la tremenda sentenza; ma, per misericordia di Dio,
tutt’altro trovai di quello che mi immaginavo. Mi presentai dunque a
lui piangendo, giacché mi mancava la maniera di parlare; Allora il
suddetto prese a consolarmi, dicendomi che non era castigo, ma solo
minaccia, che fossi andata a fare la santa Comunione, che avessi
promesso al Signore di scrivere per l’avvenire tutto, senza occultare
niente, mi disse ancora che stessi allegramente e di buon animo.
A
questa buona nuova, provai un contento tanto grande che non so
spiegare, assai più di quello che si può provare dopo un lungo esilio
alla nuova di poter tornare in patria, e con sicurezza abbracciare il
caro padre suo. Si slanciò rapidamente il mio spirito verso il suo Dio,
assai più di un’aquila che rapidamente spicca il volo fino al cielo,
così il mio spirito distese le sue ali verso il suo Dio, e questo buon
Dio, qual rapido vento, lo ha sollevato per fino a penetrare e cieli,
dove la povera anima mia benignamente è stata accolta dal sommo Dio,
che a braccia aperte stava ansioso aspettando il momento di
abbracciarla, con dolci espressioni così mi invitava: «Vieni, colomba
mia, vieni diletta mia, vieni amica mia, sposa mia, vieni a ricevere
gli abbracci più teneri dell’amoroso mio cuore».
A queste parole
fui strettamente abbracciata dall’Onnipotente. Che contento fu il mio,
nel trovarmi tra le braccia del mio diletto! che non solo mi stringeva
al castissimo seno, ma stampava sopra la povera anima teneri baci. Mi
fece intendere che non sarebbe per negarmi grazia alcuna, e che avrebbe
beneficato tutti quelli che mi avessero fatto del bene; che con
particolare benedizione sarebbero stati benedetti da lui, non solo
questi, ma tutti quelli che a me appartenessero, e tutti quelli che mi
si soggetterebbero; mi faceva intendere quanto grata gli fosse la mia
povera condotta, come avesse detto: «La rettitudine del tuo cuore, i
tuoi desideri mi obbligano, o mia diletta, a favorirti con specialità
di affetto. Inoltrati viepiù, o sposa mia, vieni a penetrare l’intimo
del mio cuore».
A queste parole ho penetrato il cuore di Dio.
12.3. Dio mi ama da Dio
«Vieni», sentivo nuovamente dirmi, «vieni, senza timore. Il mio cuore non è augusto, ma grande spazioso».
A
queste parole sono stata propriamente inviscerata con il mio Dio,
perfino a palpare con il mio spirito il cuore di Dio. Tramandava questo
amoroso cuore prezioso liquore, e con questo restava bagnata la povera
anima mia.
Che contento fu il mio, allorquando penetrando con
gli sguardi della mia mente nel cuore divino, conobbi per evidenza che
Dio mi ama da Dio, e che non cesserà mai di amarmi con amore
indeficiente; quivi contemplai le tenerezze estreme, e i prodigi
meravigliosi del suo passato, presente e futuro amore, quivi conobbi
che Dio sarà sempre felice e beato, ma di più, sarà sempre amatore
amorosissimo di me e del mio bene, conobbi che meraviglia sia mai
quella che Dio collochi fuori di sé medesimo l’infinito suo amore. A
queste nobili cognizioni restavo fuor di modo meravigliata, e andavo
tra me dicendo: «Eppure è vero che Dio possiede entro se stesso ogni
bene. In Dio risplende pure tutto l’amabile. Come dunque lo stesso Dio
ha potuto uscire fuori di sé ed amare un bene così infelice come sono
io. Oh prodigio di bontà», così esclamò il mio spirito, «o miracolo di
carità! Ha voluto questo infinito amante rivolgere verso di me
l’immensa sua carità, che poteva unicamente compiacersi negli abissi
dell’infinita sua perfezione. Posso ben io fare per il mio Dio quanto è
in mio potere, posso amarlo con tutto il cuore, con tutte le forze, ma
non potrò giammai contraccambiargli l’amore che mi porta».
A
queste riflessioni viepiù crescevano di sé la povera Giovanna Felice.
Ricevuto che ebbi la santa Comunione, chiesi in grazia al Signore di
non mai dividermi da lui, per qualunque cosa del mondo; mentre mi
protestavo di patire tutti i mali che possono patirsi, non solo in
questa vita, ma eziandio nell’altra vita, piuttosto che soffrire la
pena di essere per un solo momento divisa da lui. Questo buon Signore,
per darmi una certezza di quanto caldamente lo avevo pregato, perché
non potessi più temere di potermi dividere da lui, per parte di
intelligenza mi fece conoscere che la povera anima mia è unita a lui
assai più di quello che vigoroso albero sia unito a fruttuoso insito,
quando i verdeggianti rami verso il cielo si distendono, quando
prezioso umore le viene somministrato dalla vigorosa pianta, belli e
preziosi sono i frutti di cui questi rami si caricano. invero mi pare
che questi frutti si devono alla vigorosa pianta, che dalle sue radici
tramanda il prezioso umore, e non ai rami che li possiedono.
Padre,
in grazia, mi dica quale unione trova in questa similitudine, più non
si distingue, i rami sono divenuti una stessa cosa con questa nobile
pianta; per parte del benefico influsso, che piacevolmente le
somministra dalle sue preziose radici. In simile guisa vedevo la povera
anima mia unita a Gesù Cristo, vero albero di vita eterna.
«Figlia», mi sentivo dire, «non puoi dubitare di essere a me unita. Guarda i preziosi frutti che pendono da questi rami, sono prodotti della mia grazia».
Ricusai di guardare, perché dubitavo, per parte della mia cattiva
corrispondenza di vedere un fracidume. «Dispensatemi, Signor mio, di
guardare», diceva la povera anima mia, «lasciate che mi nasconda nel
mio nulla. Lasciate che mi confonda nella mia scelleraggine». Ma questo
buon Signore tornava di nuovo a pronunziare i suoi amorosi accenti: «Figlia diletta, mira i mirabili effetti che produce in te la grazia mia».
Per
compiacere il mio Dio, do uno sguardo a quella pianta, e fui sorpresa
da sommo stupore nel vedere cosa così rara da me mai più veduta. Piena
di ammirazione presi a lodare la Triade Sacrosanta e i suoi divini
attributi.
Venivano le tre potenze dell’anima mia simboleggiate
da questi tre rami uniti a questo nobilissimo albero di vita eterna.
Vedevo dunque questi tre rami che si distendevano verso il cielo, ogni
ramo portava diversità di frutti, tanto belli che non posso paragonarli
a veruno dei nostri. I verdeggianti rami in tre diverse parti si
distendevano, cioè i rami avevano la loro particolare tendenza: uno si
distendeva alla parte dell’Oriente, l’altro dall’Occidente, e il terzo
dal Settentrione.
12.4. Piena di Dio
Il primo di
maggio 1814 così racconta di sé la povera Giovanna Felice. Dopo
ricevuta la santa Comunione, fui sorpresa da interna quiete, da tocco
interno fu il mio spirito non solo invitato, ma obbligato dal mio Dio
ad inoltrarmi nella sua immensità. Qual cognizioni conobbi il gran bene
dell’uomo per questa divina immensità, un sì gran Dio sta sempre
presente a noi, i quali siamo non solo vicini a sì amabile immensa
bellezza, ma siamo abbracciati da lui, e tutti penetrati. Fui come
ingolfata nell’immensità di Dio, mi trovai tutta piena di Dio, conobbi
che dio assiste a tutto, osservando quanto si fa, dando le forze perché
si faccia, concorrendo e coadiuvando a quanto si opera. Dio sta sempre
congiunto ai miei occhi, per farmi vedere, alle mie orecchie per farmi
udire, alla mia mente per farmi pensare, al mio cuore per farmi amare.
O
somma felicità mia, o amore infinito! mi sento dare la felice nova che
mai, mai mi sarei divisa da lui, mentre io per necessità a lui per
volontà siamo intimamente uniti e congiunti insieme.
Il dì 3
maggio 1814 nel fare l’orazione mentale, la mattina subito levata, così
la povera Giovanna Felice. Mi pongo alla presenza di Dio, e al momento
mi sento sopraffare dallo Spirito del Signore. Mi trovo tutta in Dio,
quando da particolare cognizione mi si diede a conoscere quali pene,
quali ambascie abbia provato il Cuore santissimo di Gesù per le offese
che si sarebbero commesse dai suoi eletti. Eccomi dunque immersa in
questo mare vastissimo di amore e di amarezza! Andava la povera anima
mia immergendosi in queste acque amorose e insieme dolorose; conoscevo
gli affanni, le pene di questo afflitto cuore, e io mi sentivo morire
dalla pena e dall’afflizione. L’amore doloroso faceva mia la pena sua;
mi dimostrava la compiacenza che prendeva il suo amoroso cuore nel
patire per amore, e questa compiacenza rendeva contento il mio pover
cuore, e l’amore faceva mia la compiacenza sua. Quando in questa
vastità di affetti mi sono profondata, somma attenzione ho usato per
rintracciare gli affanni, le pene che la mia ingratitudine ha cagionato
all’amoroso cuore di Gesù. Con la grazia del Signore, li ho potuti
rintracciare. Oh, qual dolore, quale afflizione cagionò alla povera
anima mia la cognizione di tanto mal fatto, contro un Dio tanto buono!
mi pareva dalla pena di agonizzare. Mi si rende impossibile manifestare
di qual tempra fosse questa afflizione, mentre dalla grazia mi veniva
infusa tanta e sì tremenda apprensione. In qualche maniera si doveva
rassomigliare a quella pena che soffrì il buon Gesù nell’Orto.
Dopo
qualche tempo raccolsi, alla meglio che mi fu possibile, le forze, per
portarmi in chiesa per fare la santa Comunione. Mi pongo alla balaustra
in ginocchioni; al momento dalla gravosa pena passo a godere la quiete
più intima che mai possa immaginarsi. In questa quiete il mio Dio mi dà
a vedere quale parte occupa la povera anima mia del suo mistico corpo;
mi fece conoscere che occupava la sua mano destra occupava il suo
occhio destro, occupava il suo Cuore. Mi fece intendere che amava la
povera anima mia quanto si può amare membri sì cari, come sono la mano,
l’occhio, il cuore, mi fece intendere l’intima unione che passa con la
povera anima mia.
A simili cognizioni qual mi restassi, non lo
posso spiegare, veramente in qualche maniera posso dire di avere
sperimentato quegli effetti che si possono sperimentare da membri sì
cari, congiunti a corpo nobilissimo, santissimo.
12.5. Basta, mio Dio!
Dal
giorno 3 maggio, tutto il giorno 11 del suddetto mese non posso
spiegare quali e quante siano state le grazie ricevute, mentre per la
sublimità di queste non ho termini di spiegare, come ancora per
l’occultezza in cui mi è comunicato lo Spirito del Signore, che non è
stato neppure a me permesso di penetrare, di conoscere la sublimità del
dono; ma i buoni effetti che hanno cagionato in me dimostrano il favore
straordinario della predilezione di un Dio amante di me, sua
poverissima creatura. Tutti questi giorni posso dire di essere stata
più o meno sempre assorta in Dio. Ho passato certi momenti che mi
credevo di restare come stemperata, come liquefatta dall’amore, tanta
era la forza, tanta la violenza dell’affetto del cuore, che mi faceva
gridare: «Basta, mio Dio, basta, non più».
Mi sentivo come venir
meno: ora mi sentivo una vivacità di spirito che speditamente cercavo
di andare al mio Dio, questa vivacità faceva violenza al corpo o di
abbandonarlo, ovvero condurlo presso di sé, per la veemenza mi sentivo
come sollevare; ora restavo alienata dai sensi, e come morto restava il
corpo; ero sopraffatta da interna dolcezza, questa cagionava una
soavità tanto grande che venivo meno, e placidamente cadevo in terra.
Il
dì 16 maggio 1814 la povera Giovanna Felice così racconta di sé. Nella
santa Comunione sono stata condotta nei gabinetti del sommo mio Re,
dove ho veduto il sommo Dio assiso sopra al real trono; ho veduto
magnifica tavola, guarnita di prezioso tappeto, sopra di questa ho
veduto sette libri di smisurata grandezza, custodi di questi erano
sette personaggi sublimissimi, dotati di somma sapienza; sono restata
ammirata a tanta magnificenza. Ho domandato cosa contenessero quei
smisurati libri, mi è stato fatto intendere che contenevano le divine
scienze. Uno di quei sovrani custodi ha aperto il suo libro, e mi ha
invitato a leggere, non avrei ardire di approssimarmi a quella
magnifica tavola, se il sovrano mio Re non mi avesse benignamente
invitato, con le espressioni più affettuose dell’infinito
Il dì
17 maggio 1814 la povera Giovanna Felice così racconta di sé. Nella
santa Comunione sono stata per la seconda volta condotta nei gabinetti
del sovrano mio re. Per divino favore mi è stato permesso di tornare a
leggere i suddetti libri; mi sono state donate le tre disposizioni
surriferite: di purità, di semplicità, di solitudine; di quale
semplicità, di quale solitudine intendo dire vostra paternità molto
bene m’intende.
Dio medesimo si è degnato di ammaestrarmi, in
quel momento mi ha donato tanto di sapienza, perché potessi conoscere
per qual fine Dio mi ha creato, cosa invero comune a tutti; ma, oh Dio,
quanto diversa è stata la cognizione che mi ha comunicato il mio
amoroso Signore!
A queste cognizioni in quali amorosi accenti
proruppe il mio povero spirito verso il suo amoroso Signore! ai diversi
affetti il cuore restava come liquefatto. Oh, quanta compiacenza
prendeva il mio Dio nel vedermi quasi distrutta per amore! Di quale
unione mi degnò è impossibile manifestarlo. Divenni per parte
dell’intima unione oggetto delle compiacenze di un Dio eterno,
infinito, onnipotente
L’intima unione mi meritò di essere
preferita a tutto il resto delle creature. Con somma chiarezza il mio
Signore mi fece intendere che ama assai più un’anima intimamente a lui
unita, di quello che ami il resto delle creature. Nel trovarmi
sollevata a posto sì sublime, senza alcun merito, ma con tutto il
demerito mai immaginabile, cercavo di annientare me stessa con la
umiliazione, con la gratitudine, con l’amore.