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ALEXANDRINA DA BALASAR (Beata) - CRISTO GESU' IN ALEXANDRINA
AUTOBIOGRAFIA
PREFAZIONE
« Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date » (Mc 10,15). Fu
questo il pensiero che mi ha accompagnato sempre nella stesura del
presente lavoro in cui appare, per puri motivi storici, il mio nome.
Ed ora che ho documentato, prima che scomparissero i testimoni del
Caso di Balasar, quanto mi è stato donato, provo soltanto la gioia che
si gode per un dovere compiuto: nulla più.
Mi sento come colui che si toglie di dosso un vestito che non gli appartiene.
La fatica affrontata me la sono imposta per esprimere « un grazie
eterno » al Datore di ogni bene e per la sua gloria, fiducioso che
giovi alle anime.
Ci tengo subito a precisare che il fatto, non certamente comune, di
Alexandrina (con le sue estasi, profezie, scrutazione delle coscienze,
il digiuno totale e anuria) non appartiene certo alla rivelazione, nel
senso che possa migliorare o addirittura completare l'annuncio di
Cristo, e perciò non crea affatto un dovere diretto di adesione di fede.
Ma voglio anche ricordare, con Rahner, che rivelazioni private
autentiche possono fondare missioni profetiche nella Chiesa, dando
impulsi per l'agire del popolo di Dio e adattando alle nuove situazioni
l'unico Vangelo permanente.
La vita straordinaria di Alexandrina fu, secondo l'affermazione di un
teologo contemporaneo e coinvolto nel Caso, « una esplosione di
soprannaturale che ha richiamato l'attenzione di enormi moltitudini
sulla sua persona ». Conosciuto, subito dopo la morte di lei, ha
suscitato autentici movimenti religiosi in molte parti del mondo verso
quegli obiettivi che furono programma della sua vita.
Nessuno, in questi tempi, può negare la loro attualità ed urgenza se si
considera quanto avviene nella Chiesa e nel mondo. Oggi una sbagliata
interpretazione della secolarizzazione
Che cosa è poi questa mistica?
Vita mistica è la misteriosa vita della grazia di Cristo nelle anime
fedeli che, morendo a se stesse, con Lui vivono nascoste in Dio (Col
3,3).
Cioè « è la vita intima che sperimentano le anime giuste, animate e
possedute dallo Spirito di Gesù Cristo, ricevendone sempre più e
sentendo, talvolta in modo chiaro, i suoi divini influssi - gaudiosi e
dolorosi - per cui crescono e progrediscono, in unione e conformità
con Lui che ne è il Capo, fino ad essere in Lui trasformate » (Gal
4,19; 2 Cor 3,18).
Questa vita può essere vissuta in maniera inconscia, come il bambino vive la vita razionale o umana.
La vivono così i principianti ed in generale gli asceti che camminano
verso la perfezione per « vie ordinarie » meditando laboriosamente i
misteri divini, esercitando la mortificazione delle passioni e la
pratica delle virtù e della pietà.
Ma può essere vissuta anche in modo cosciente, con una certa esperienza
intima dei misteriosi tocchi e influssi divini, e della reale presenza
vivificatrice dello Spirito Santo.
Così la vivono molte anime assai progredite, giunte al perfetto
esercizio delle virtù; come anche altre anime privilegiate, scelte,
molto presto, liberamente, da Dio per farle giungere più in fretta,
quasi sulle sue braccia, attraverso le « vie straordinarie » della
contemplazione infusa.
Coloro che vivono così, più o meno coscientemente, della vita divina si chiamano mistiche o contemplative.
Mistiche, per l'intima esperienza che hanno degli occulti misteri di
Dio; contemplative perché la loro abituale preghiera suole essere la
contemplazione che Dio stesso infonde a chi vuole, quando e come vuole.
La preghiera degli asceti è meditazione discorsiva che, con la grazia
ordinaria che Dio non nega a nessuno, possono perfezionare fino a
convertirla in orazione di semplicità o contemplazione in parte infusa
e in parte acquisita. Essa suole essere accompagnata da una certa
presenza amorosa di Dio, originata da un influsso dello Spirito
Consolatore per realizzare la transizione graduale dallo stato
ascetico allo stato mistico. Sta scritto infatti che « le cose di Dio
nessuno le conosce se non lo stesso Spirito di Dio » (1 Cor 2,11) e «
colui a cui il Figlio vorrà rivelarle » (Mt 11,27).
Per giungere allo stato mistico è necessario essersi consolidati nella
virtù, vincendo se stessi e conformando sempre più la propria volontà
alla volontà di Dio. Soltanto così l'anima incomincia a sentire e
notare certi desideri, impulsi o istinti del tutto nuovi e veramente
divini, non provenienti da lei, che la spingono ad un genere di vita
sconosciuto e di perfezione molto superiore.
Esercitandosi davvero nella virtù, l'anima entra in quella maturazione
« dell'uomo perfetto » per cui incomincerà a vedere davanti a sé la
luce e la discrezione dello Spirito di Cristo, come insegna l'apostolo
(Ef 5,14).
Sottomessa la prudenza della carne - che è morte - a quella dello
Spirito che è « vita e pace », incomincerà a vivere come « spirituale
», a muoversi sotto gli influssi del divino Consolatore.
Vedendosi, allora, mossa dallo Spirito di Cristo, riconosce di essere
figlia di Dio perché quello Spirito di adozione che la muove gliene dà
testimonianza e la spinge a chiamare « Padre » il Dio onnipotente (Rom
8,6.16).
Questa spinta avuta, genera in lei il dono della pietà: chiama Dio con
questo amoroso nome senza avvertire che è il suo stesso Spirito di
amore a muoverla.
Passa così dalla semplice unione di conformità in cui ella agiva
all'unione trasformante in cui si ha Dio come unico direttore e motore
ordinario della propria vita (santa Teresa, Mansione V, 2; VIII, 3).
È qui che l'anima comprende non soltanto di operare con la virtù di
Cristo, ma che lo stesso Cristo col quale è configurata (essendo morta
e risuscitata con Lui e da cui ha ricevuto l'impressione del sigillo
vivo) è Colui che opera e vive in lei e con lei. Così può ripetere, in
tutta verità, « vivo io, ma non sono io che vivo, è Cristo che vive in
me ». Infatti il suo vivere è Cristo, il cui Spirito la vivifica in
tutto poiché regna nel suo cuore come padrone assoluto. (Cf Giovanni
della Croce, strofe 3,5; 12,2; 22; 23,1; 36,5).
Vita mistica traguardo del cristiano
Da quanto esposto risalta l'importanza per l'anima di curare la
crescita di virtù in virtù per giungere sino all'unione con Dio e fino
alla trasformazione deificante. Tutti i Padri insegnano che questo è
il punto capitale della vita cristiana: giungere cioè ad assomigliare
a Dio come un figlio a suo Padre: « siate perfetti com'è perfetto il
vostro Padre dei cieli » (Mt 5,48).
L'invito è diretto ai figli del regno i quali, per ciò stesso, sono già
di Dio perché « se uno non rinasce per il battesimo nell'acqua e nello
Spirito Santo, non può entrare nel suo regno ».
Però lo stesso Verbo incarnato « a quanti lo ricevono dà il potere di
diventare figli di Dio, rinascendo da Lui » per la grazia santificante
(Gv 1,12-13; 3,5).
Questa grazia è una perfezione sostanziale, una seconda natura che ci
fa nuove creature in quanto ci trasforma e divinizza. Siamo figli di
Dio, proprie et formaliter, non tanto per un dono creato quanto per
l'inabitazione del divino Spirito che vivifica e muove le nostre anime.
Questo titolo di figli di Dio non è un nome vano, né una semplice
iperbole... Indica una reale dignità, soprannaturale, essenziale a
tutti i giusti ed è frutto di redenzione e dono di salvezza. Nel
riceverla, con la grazia santificante, per adozione, diventiamo in
certo modo per Iddio ciò che il suo Figlio è per essenza.
Senza identificarci o confonderci con Lui, cioè senza sopprimere la
nostra natura, Dio ci associa alla sua, ci fa partecipi del suo
Spirito, della sua luce con la fede, del suo amore con la carità, delle
sue operazioni in virtù della sua grazia. Pone nella nostra anima un
nuovo principio di azione, il germe di una vita superiore,
soprannaturale, divina, destinata a crescere e svilupparsi nel tempo
per mostrarsi pienamente nella eternità, ove parteciperemo della sua
gloria e del regno » (Manuel Biblique, vol. IV, p. 216, n. 587). Ecco
la razza nuova, la stirpe divina di cui parla san Pietro: un uomo
divinizzato, incorporato col Verbo fatto uomo, animato dallo stesso
Spirito Santo.
S. Agostino insegna: « Se Dio si è umiliato sino a farsi uomo, fu per
elevare gli uomini e farne degli dei » (Serm. 166); « li deifica con la
sua grazia; perché giustificandoli li deifica, facendoli figli di Dio e
perciò dèi » (S. Agostino in Ps. 49,2). Il P. Ramiere scrive: «Sembra
giunto il tempo in cui il grande dogma dell'incorporazione dei
cristiani con Cristo avrà, nell'insegnamento ai fedeli, la stessa
importanza che gli è data nella dottrina apostolica. È giunto il tempo
che non si considererà più come accessorio il punto in cui san Paolo
fondava tutto il suo insegnamento; in cui si comprenderà che questa
unione presentata dal Salvatore con l'immagine dei sarmenti uniti alla
vite, non è una metafora, ma una realtà; che nel battesimo diventiamo
realmente partecipi della vita di Cristo; che riceviamo, non in figura
ma realmente, il divino Spirito, principio di questa vita, e che senza
spogliarci della nostra personalità umana, diventiamo membra di un
corpo divino acquistando, perciò stesso, forze divine » (Esperances de
l'Eglise, p. 111, cap. 4).
Alexandrina, portatrice di un messaggio divino
Quanto abbiamo detto è veramente il nucleo essenziale del messaggio di
Alexandrina: l'esperienza mistica da lei vissuta. La mistica non è un
fossile perché la serva di Dio (…ggi, Beata…) è di oggi. Siamo
testimoni; e questa autobiografia conferma che ella non ha cercato se
stessa: è morta perché morisse in lei la morte e vivesse in lei Dio, il
quale ha operato quell'unità che la fece vivere in Lui, imprimendole
l'immagine della sua maestà: « Tu sei la mia Alexandrina trasformata in
Cristo! ».
E di Cristo ricevette il sigillo vivo, il 3 ottobre 1938, quando
sofferse la prima volta la Passione del suo Sposo e Signore. Ne fu
talmente inebriata che, nello stesso giorno, di suo pugno, scrisse su
un'immagine: « Gesù mi ha condotta dall'Orto al Calvario. Che grande
fortuna! Ora posso dire: “Sono crocifissa con Cristo”! ».
Attraverso il diario che ella dettava noi comprendiamo, per esempio, la
frase dell'apostolo Paolo: « Sono stato crocifisso con Cristo... Non
sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me ».
Sono di quelle frasi che i cosiddetti « intellettuali e maestri »
moderni sanno ripetere per averle udite o lette ma che, ignorandone
perfino le genuine fonti, non potranno mai comprendere nel loro
significato profondo e neppure spiegare; tanto meno assaporarle nella
loro trascendenza estasiante ed impegnativa. Alexandrina, vittima con e
in Gesù per i peccatori, ci conduce a penetrare nel tremendo mistero
del Crocifisso espresso in quella frase di Paolo: « Colui che non
conobbe peccato, Egli (Dio) lo fece peccato per noi affinché noi
potessimo diventare giustizia di Dio in Lui » (2 Cor 5,21).
Nessuna elucubrazione teologica o psicologica raggiungerà mai la
potenza tragica delle descrizioni che quest'umile figlia della
campagna, quasi analfabeta, ci presenta di questo dramma da lei vissuto
per lunghi anni.
In lei è l'amore del Cuore di Gesù a proporsi all'umanità che continua
a peccare. E' questo amore che si vuole donare a tutti attraverso il
Cuore della sua Madre benedetta.
In Alexandrina è il Cristo Crocifisso a chiamare gli uomini a tuffarsi
nel suo Sangue redentore, a unire il proprio dolore a quello della sua
Passione, perpetuata nell'Eucarestia e nelle membra del suo corpo
mistico, affinché tutta l'umanità sia salva.
Per comprenderne il linguaggio
Alexandrina, offertasi vittima a Gesù, fu dallo Spirito Santo
identificata tanto con Lui da sentirsi davvero un altro Cristo. Mons.
Orazio de Araújo, all'apertura del processo, ha affermato: « In
Alexandrina si vedeva e si sentiva Cristo per trasparenza ».
Chi leggerà queste pagine della serva di Dio (…oggi, Beata…) e non
conoscesse queste misteriose vie del Signore, potrebbe talvolta
rimanere disorientato di fronte al suo linguaggio. Il lettore non deve
mai dimenticare che Alexandrina, come e con Gesù operante in lei, si è
addossata il mondo ed è, contemporaneamente, identificata con la
Vittima divina: in lei parla il mondo e in lei parla Gesù.
Aiuterà senza dubbio la comprensione del suo linguaggio questo brano di
sant'Agostino a commento del salmo messianico che è una supplica del
peccatore in pericolo mortale.
Il santo dottore si domanda come potesse Cristo che era senza colpa
dire: « Per il tuo sdegno non c'è in me nulla di sano; nulla è intatto
nelle mie ossa per i miei peccati ».
A più riprese, egli spiega la cosa dicendo che qui è necessario
comprendere la dottrina del corpo mistico già esposta da san Paolo.
« Quando parla Cristo, a volte egli parla come capo soltanto, altre
volte parla a nome del suo corpo che è la Chiesa... e noi pure siamo in
questo corpo e siamo membra sue e perciò ritroviamo noi stessi in Lui
che parla... Di chi sono i peccati se non del corpo cioè della Chiesa
di Cristo? Tuttavia uno solo parla: il capo e il corpo. Essi infatti
sono due in una sola carne (Ef 5,31-32).
Se Cristo e la Chiesa sono una sola carne, una sarà la lingua, medesime le parole di entrambi...
Non vi è divisione di persone, solo c'è distinzione di dignità: perché
il capo salva, il corpo è salvato. Il capo dona misericordia, il corpo
piange la sua miseria. Il capo purifica dai peccati, il corpo confessa
i peccati: una sola, tuttavia, è la voce. Noi ascoltiamo questa voce,
possiamo bensì distinguere quando parla il corpo e quando parla il
capo, ma non dobbiamo separare la voce dell'uno da quella dell'altro »
(S. Agostino, Enarr. sul salmo 37,6).
Le fonti di quest'opera
Santa Maria Maddalena de Pazzi spiega che quando l'anima è giunta
all'unione trasformante « il Verbo stesso discende in lei e vi opera
ciò che realmente ha fatto nella sua Umanità dall'incarnazione alla
morte... e che infine muore, risuscita, sale al cielo con Lui rimanendo
sulla terra ».
Quando, nel lontano 1944, dalla bocca di Alexandrina intravidi queste
divine operazioni nella sua anima e fui chiesto di dirigerla
spiritualmente, le imposi di dettare minuziosamente il suo diario
affinché nulla si perdesse di questa esperienza mistica.
Sentivo che avrei impoverito il mondo e soffocato un'onda di
glorificazione a Dio che irrompeva attraverso quella vittima consacrata
totalmente all'Amore per la salvezza dei peccatori.
Il lavoro per l'impostazione del processo diocesano di beatificazione,
ormai passato alle Congregazioni romane, ha stimolato le mie ricerche.
Si è potuto archiviare una ricchezza insperata di scritti e di
testimonianze che provano le altezze di contemplazione a cui è giunta
la serva di Dio e la missione destinatale dal Signore per il suo piano
divino di salvezza. Ne riporto l'elenco:
- Lettere al primo direttore, pagine, dattiloscritte ad un solo spazio, 1270
- Autobiografia, pagine 65
- Lettere e diario al secondo direttore, pagine 1957
- Diario autografo, pagine 105
- Pensieri sciolti, pagine 91
- Lettere a diversi, pagine 411.
Un totale di 3899 pagine; ecco la fonte a cui ho attinto per
l'organizzazione, la traduzione e il commento di questo lavoro.
Naturalmente non riporto se non una parte del cumulo di materiale. Mi
sono preoccupato di tradurre soltanto quello che poteva servire per
mettere in evidenza l'evoluzione mistica di Alexandrina, cioè il
processo di formazione, sviluppo ed estensione della sua vita
prodigiosa « sino a formarsi Cristo in lei » (Gal 4,19) e «
trasformarsi nella sua divina immagine » (2 Cor 3,18).
La scelta non fu facile. Vi sono necessariamente delle ripetizioni, in
cui però un lettore attento coglierà delle sfumature differenti e di
non poca bellezza e profondità.
Lo scopo propostomi fu di far ascoltare dalla stessa Alexandrina la
narrazione della sua vita, che, se non è ricca di fatti esterni, è
colma di azioni interiori descritte in maniera sublime.
Ecco alcuni giudizi sugli scritti a cui ho attinto.
Il teologo Molho de Faria si e espresso così: « Vi è tanta bellezza ed
esattezza in alcune cose di reale difficoltà teologica, che, sapendo da
chi vengono, non possiamo non vedere chiaramente il potere di Dio. Vi
sono modi di esprimersi ed immagini di tanta grandiosità e proprietà
nell'esporre desideri e affetti che dobbiamo ammettere un sentimento
altissimo. Credo che un giorno si farà piena giustizia » (2-3-1943).
I Padri Passionisti di Barroselas scrivono: « Sono davvero ammirabili
se si considera la mancanza di studi di chi scrive» (17-4-1947).
Il carri. Manuel Goncalves Cerejeira ha scritto: « Ciò che ha
pubblicato delle lettere di Alexandrina è quanto vi è di più sublime.
Nessun artista ha saputo dire cose tanto belle. Già nelle estasi avevo
letto cose veramente ammirabili. Anche i poeti più illustri avrebbero
goduto di raggiungere quel livello di intensità, di emozione, di
semplicità e bellezza» (28-6-1956).
Mons. Mendes do Carmo, maestro di mistica, dice: " Tante pagine
traboccano di tal sapore mistico che qualsiasi insegnante di questa
materia, il quale non avesse anche esperienze personali della vita
mistica dei più grandi santi, sarebbe incapace di scriverle. La scienza
che splende nelle migliaia di pagine di Alexandrina (la quasi
analfabeta perché non frequentò neppure la seconda elementare) non può
essere una scienza umana, ma una scienza divina infusa " (17-5-1960).
Un chiarimento doveroso
Quest'opera comprende anche un'Appendice con Documenti i quali
convalidano la storicità della meravigliosa avventura spirituale della
Serva di Dio (…oggi Beata…).
È lei che narra, attraverso le pagine scritte o dettate generalmente
alla sorella Deolinda. Gli originali non hanno nessuna correzione: le
cose sono scritte con la limpidezza intatta di un'acqua che sgorga
dalla fonte.
Ho dovuto integrare la narrazione del diario, là dove mi parve
necessario per riempire lacune o documentare qualche argomento di
importanza, con lettere ai suoi direttori o al medico, ecc.
Di mio vi sono i titoli. Li ho voluti per rendere più leggera la
lettura, pur riconoscendo che non sempre esprimono tutto il contenuto
dei capitoli, densi di significati e di sfumature.
Qua o colà ho aggiunto fra parentesi quadra qualche parola per
facilitare la comprensione o per legare certi periodi presi da un
determinato contesto o da altri documenti. Però tutto sommato si
riducono a ben poche cose.
Sono anche mie le note storiche, bibliche, teologiche e i rimandi ad altri libri sulla Serva di Dio (…oggi Beata…).
La traduzione non è stata facile. Sovente ho preferito la fedeltà del
pensiero dell'Autrice alla proprietà della lingua italiana. Il lettore
mi sia benigno.
Mi sento in dovere di ringraziare chi mi ha stimolato ad accingermi a
questo lavoro, chi mi ha aiutato a correggerlo, chi mi è venuto
incontro per portarlo a termine, a precisare o completare molte note
storiche.
Un grazie sentito a chi, infine, per devozione verso Alexandrina, ha finanziato la stampa del libro.
Leumann (To) 13-10-1973 D. UMBERTO M. PASQUALE
NARRO LA MIA VITA
Dopo una breve preghiera per implorare aiuto dal cielo, luce dallo
Spirito Santo allo scopo di poter fare ciò che il mio padre spirituale
mi ha ordinato, narro - anche se con molto sacrificio - la mia vita,
così come il Signore me la ricorderà di volta in volta.
Primi ricordi
Mi chiamo Alexandrina Maria da Costa: nacqui nella frazione Gresufes
della parrocchia di Balasar, comune di Póvoa de Varzim, distretto di
Oporto il 30 marzo 1904, mercoledì della settimana santa. Fui
battezzata il 2 aprile seguente, sabato santo: miei padrini furono lo
zio Gioachino da Costa e una donna di Gondifelos chiamata Alexandrina.
Prima dei tre anni non ricordo nulla, se non qualche tenerezza usatami dai miei.
A tre anni ebbi la prima piccola « carezza » del Signore. Dovevo stare
coricata presso mia mamma che riposava, ma, irrequieta come ero, non
volevo dormire: alzatami, mi protesi verso un barattolo di grasso che
serviva per ungere i capelli, come si usava allora; volevo imitare i
grandi. Se ne accorse la mamma che mi richiamò di sorpresa e mi
spaventai. Il barattolo mi sfuggì dalle mani e s'infranse sul
pavimento mentre io vi cadevo sopra, ferendomi gravemente al viso. Fui
trasportata subito da un medico, che si dichiarò incapace di trattare
il mio caso; mia madre allora mi portò a Viatodos da un farmacista
famoso che mi diede tre punti. Soffersi molto: almeno avessi saputo
già allora approfittare del dolore! Ma no! Fui invece cattiva col
farmacista, rifiutando i biscotti inzuppati nel vino che mi offriva
per calmarmi. Fu questo il mio primo atto di cattiveria.
Verso i quattro anni amavo indugiarmi a contemplare la volta del cielo.
Più di una volta domandai ai miei se non si poteva arrivare lassù
collocando, una sopra l'altra, le case, gli alberi, ecc.; alle loro
risposte negative provavo tristezza e nostalgia. Non so cosa mi
attirasse lassù.
Alla stessa epoca abitava con noi una zia che morì poi di cancro. Ella,
già ammalata, mi chiedeva di cullare il suo bambino, primo frutto del
suo matrimonio. Le facevo quel servizio volentieri, sia di giorno che
di sera.
Così pure ero contenta di unirmi alla sua preghiera per ottenerne da Dio la guarigione.
Ero vivace e dominatrice
Quando ai cinque anni iniziai a frequentare la scuola di catechismo
rivelai subito un grande difetto: la testardaggine. Il vice-parroco mi
assegnò il posto tra le bambine della mia età, ma io mi infilai tra le
più alte, con le quali ero solita accompagnarmi. Nonostante le
insistenze e le promesse del viceparroco, io non cedetti se non dopo
alcuni giorni. In chiesa mi soffermavo a contemplare le statue. Mi
attiravano soprattutto quelle della Madonna del Rosario e di San
Giuseppe. Il loro abbigliamento sontuoso destava in me il desiderio di
essere elegante come loro per fare bella figura. Era forse un sintomo
della mia vanità?
Insieme a questi difetti esprimevo fino da quella età il mio amore
verso la Mamma del cielo: cantavo con entusiasmo le sue lodi e portavo
fiori alle zelatrici che solevano ornare il suo altare.
Ero vivacissima, sì da meritarmi il soprannome « Mariamaschietto ».
Dominavo le mie compagne, anche quelle più alte. Mi arrampicavo sugli
alberi. Preferivo camminare sui muretti di cinta anziché sulla strada.
Mi piaceva lavorare: pulire la casa, trasportare legna, lavare. E
volevo il lavoro ben fatto; ed anche la mia persona volevo che fosse
linda.
Un giorno ero al pascolo in compagnia di mia sorella Deolinda e di una
cugina. Una mula ci sfuggì in una coltivazione. Corsi a richiamarla, ma
con un colpo di testa essa mi buttò a terra e con una zampa si mise a
rasparmi il petto come per gioco. Ripeté il gesto parecchie volte, ma
non mi fece alcun male. Le mie compagne si misero a gridare: accorsero
varie persone che rimasero stupite nel vedermi illesa.
Una volta andai con Deolinda a far visita alla mia madrina. Per fare
più in fretta volemmo attraversare il torrente Este saltando su grosse
pietre collocate a questo scopo. Ma la forza della corrente era tale
che le pietre ci sfuggirono di sotto i piedi; cademmo nell'acqua e ci
salvammo per miracolo.
Prima Comunione e Cresima
Nel gennaio 1911 fui mandata con mia sorella a Póvoa de Varzim per
frequentare la scuola. Rifuggo dal pensare quanto mi costò la
separazione dalla famiglia. Piansi assai e per molto tempo. Cercarono
di distrarmi colmandomi di carezze ed accontentandomi in tutto; dopo un
certo tempo mi rassegnai. Continuai però ad essere monella: mi
aggrappavo ai tram per lunghi tratti, attraversando la strada quando
essi stavano sopraggiungendo; i conduttori dovettero accusarmi alla
donna che ci teneva in pensione. Sovente fuggivo da casa per andare
alla spiaggia a raccogliere alghe; mi inoltravo nell'acqua come le
pescatrici. Ciò affliggeva la donna che ci ospitava, perché mi
assentavo di nascosto.
Fu a Póvoa de Varzim che feci la prima Comunione. Padre Alvaro Matos mi
insegnò il catechismo, mi confessò e mi diede per la prima volta Gesù.
Avevo sette anni. Ricevetti la Comunione in ginocchio, pur essendo
molto piccola. Fissai l'Ostia santa in tal modo che mi rimase impressa
nella mente; ebbi l'impressione di unirmi a Gesù per sempre. Mi parve
che Egli legasse a Sé il mio cuore. La gioia che provai è inspiegabile.
Ne parlavo a tutti. Come ricordo ricevetti una bella corona del Rosario
ed una immagine.
La signora che ci ospitava e si curava della nostra educazione mi
condusse poi ogni giorno a ricevere la Comunione. A Villa do Conde dal
vescovo di Oporto mi fu amministrata la Cresima. Ricordo benissimo la
cerimonia e la consolazione che provai. Non so dire ciò che sentii in
me in quel momento. Mi parve che una grazia soprannaturale mi
trasformasse e mi unisse ancor più al Signore. Non so spiegarmi meglio.
Alcuni ricordi di Póvoa
A misura che crescevo, aumentava in me il desiderio della preghiera.
Volevo imparare tutto. Ancor oggi conservo un libretto con le pratiche
devozionali della mia infanzia: le preghiere alla Madonna, l'offerta
al Signore delle mie azioni giornaliere, l'orazione all'Angelo
custode, a San Giuseppe e varie giaculatorie.
Quando uscivo a passeggio con la signora che ci ospitava e con altre
bambine, mi allontanavo a raccogliere fiori che andavo poi a sfogliare
nella cappella dell'Addolorata.
A maggio godevo nel contemplare gli altari della Madonna adorni di
fiori ed ero felice quando la mamma me ne portava per questo scopo.
Il Cappellano della chiesa dell'Addolorata organizzava comitati di
fanciulle per il culto alla Madonna. Si andava nelle parrocchie vicine
a raccogliere generi alimentari. Ricordo che un giorno ad Agucadoura ci
diedero ben poco ed allora avemmo la infelice idea di assaltare un
campo di patate: ne raccogliemmo quasi due chili.
Ero molto affezionata alla mia signora. Quando ricevevo qualche dono
gliene facevo parte per darle gioia: lo facevo di cuore, anche se ero
molto cattiva.
Un giorno mia sorella le chiese di poter andare a casa di un'amica a
studiare ed io mi impuntai nel volerla seguire. Siccome la signora non
me lo consentì, io piansi stizzita e le diedi un nomignolo. Ella non mi
castigò, ma mi disse che non avrei potuto andare a confessarmi senza
chiederle perdono. Anche mia sorella mi affermò la stessa cosa. Mi
ripugnava tanto il chiederle perdono, ma il desiderio di confessarmi e
di fare la Comunione era tale che vinsi il mio orgoglio. Mi posi in
ginocchio davanti a lei che mi perdonò con le lacrime agli occhi. Io
provai una grande gioia nel poter andare a confessarmi e a ricevere
Gesù.
Di quel tempo mi ricordo anche del rispetto che nutrivo per i
sacerdoti. Quando, seduta sulla porta di casa, o sola o accompagnata,
ne vedevo passare qualcuno, io mi alzavo e chiedevo la benedizione.
Talvolta osservavo che le persone ne rimanevano ammirate e ciò mi
rallegrava tanto che sovente mi sedevo apposta per avere modo di
alzarmi al passaggio dei ministri del Signore e mostrare così la mia
venerazione per loro.
Ritorno al paese - Prime contemplazioni e amore all'innocenza
Dopo 18 mesi, appena mia sorella ebbe superato il suo esame, ripartimmo
da Póvoa. La mamma voleva che io rimanessi a studiare, ma da sola non
volli restare. Avevo imparato ben poco.
Ritornammo per quattro mesi alla frazione Gresufes dove siamo nate. Poi
venimmo ad abitare più vicino alla chiesa, in una casa di mia madre,
nella frazione detta «Calvario».
Verso i nove anni, quando mi alzavo di buon'ora per i lavori di
campagna e potevo essere sola, mi indugiavo a contemplare la natura:
lo spuntar dell'aurora, il nascere del sole, il cinguettare degli
uccelletti, il gorgogliare delle acque entravano in me trasportandomi
in una contemplazione tanto profonda che quasi mi faceva dimenticare
di vivere nel mondo. Mi fermavo assorbita dal pensiero: o potenza di
Dio!
Quando mi trovavo sulla riva del mare, oh come mi perdevo di fronte a
quella grandezza infinita! Di notte, nel contemplare il cielo e le
stelle, mi smarrivo nella ammirazione delle bellezze del Creato.
Quante volte nel mio giardinetto ammiravo il cielo, ascoltavo il
mormorio delle acque e penetravo sempre più nell'abisso delle
grandezze divine!
Mi spiace di non aver saputo approfittare di quei momenti per darmi fin
da quella età alla meditazione. Anche se molto vivace, avevo una grande
paura di perdere la mia innocenza e di attirarmi la disapprovazione di
Dio. Mi ricordo di aver detto due parole che ritenevo peccato: me ne
vergognai subito e mi costò assai confessarle.
Non mi piacevano i discorsi maliziosi. Sebbene non ne capissi il
significato, minacciavo chi li faceva di non più avvicinarli, qualora
non si fossero corretti. Così pure mi indignavo se vedevo qualche gesto
scorretto.
All'inferno, no!
A nove anni feci la mia prima confessione generale a Fra Emanuele delle
Sante Piaghe che predicava a Gondifelos. Vi andai con Deolinda con una
cugina che si chiamava Olivia. Prendemmo posto presso l'altare del
sacro Cuore per udire meglio la predica. Io deposi i miei zoccoletti
presso la balaustra.
Il tema del discorso era l'inferno. Ascoltai con molta attenzione
parola per parola. Ad un certo punto il padre ci invitò a scendere con
lo spirito nell'inferno. Io non compresi l'esatto significato delle sue
parole, ed avendo sentito dire che Fra Emanuele era un santo, credetti
che noi tutti saremmo andati davvero all'inferno per vedere ciò che
avviene in quel luogo. Dissi allora fra me: - All'inferno non voglio
andare! Quando gli altri vi si dirigeranno, io me la svignerò. - Così
pensando, afferrai i miei zoccoletti per essere pronta a fuggire.
Vedendo che nessuno si muoveva, rimasi dove ero, ma sempre con gli
zoccoletti in mano.
Ero molto scherzosa
Amavo molto mia sorella, ma quando mi stizzivo con lei le tiravo
addosso ciò che mi capitava in mano: mi ricordo di averlo fatto due
volte e mi sento in dovere di confessarlo. Mi piaceva assai farle degli
scherzi. Qualche volta al mattino mi alzavo prima di lei e le mettevo
degli ostacoli alla porta per farla cadere, come per dirle che era
pigra. Le feci anche scherzi di cattivo gusto. Un giorno alzai il
coperchio di una cassapanca e lo lasciai cadere con forza emettendo
alte grida e fingendo di essermi schiacciata una mano. Deolinda accorse
spaventata ed angosciata, finché ad un certo punto le risi in faccia.
Nella intimità familiare, chi rallegrava tutti ero io. La mamma soleva
dire: - I ricchi hanno il giullare; io non sono ricca ma ce l'ho
ugualmente.
Deolinda a 12 anni incominciò il suo corso di sarta. Il primo capo
confezionato fu una camicia per me; ma per il taglio e l'ampiezza
pareva una camicia da ragazzo. Io, nonostante i miei nove anni, mi
burlai di lei. Vestii la camicia sopra i miei abiti e mi incamminai
verso casa. Mia sorella, ridendo a più non posso, mi supplicava: -
Svesti quella camicia! Non hai vergogna di dare spettacolo in tal
modo? - Non le diedi retta... e, ridendo anch'io, feci quei 500 metri
che mi separavano da casa.
In un bel pomeriggio andai con le mie cugine a passeggio su un
monticello poco lontano da casa ove trovammo alcuni giumenti al
pascolo. Pur non sapendo cavalcare, mi arrischiai a saltare in groppa
ad uno di essi. Pochi istanti dopo caddi tra i rovi, ma non mi ferii e
ci facemmo una buona risata. Sui 16 anni, già ammalata, andai alla casa
dove mia sorella lavorava da sarta. Avendo trovato appeso un vestito da
uomo, lo indossai e comparvi davanti a mia sorella e alla padrona di
casa. Quanto risero non so dire. La padrona mi suggerì di uscire in
istrada ove i suoi figli e il marito stavano potando le viti del
pergolato. Pur sospettando che mi avrebbero riconosciuta, ubbidii.
Passando vicino a loro li salutai togliendomi il cappello. Essi smisero
di lavorare e mi osservarono a lungo domandandosi: - Ma chi è quel
giovanotto? - Mia sorella e la padrona dalla finestra seguirono la
scena ridendo a più non posso. Ricordando certe monellerie mi duole di
averle commesse: vorrei piuttosto avere amato Gesù.
Carità verso i bisognosi
Quando venivo a sapere che qualche persona non aveva di che coprirsi a
sufficienza, chiedevo il necessario alla mamma. Rimasi sovente a far
compagnia ai sofferenti.
Assistetti alla morte di qualcuno, pregando come sapevo. Aiutavo a
vestire i defunti, anche se mi costava assai; lo facevo per carità.
Non avevo il coraggio di lasciar soli i parenti del morto. Prestavo
volentieri questi aiuti, vedendoli tanto poveri
Mi ricordo di alcuni casi. Andai a visitare un uomo ammalato e lo
trovai coperto di poveri stracci. Corsi subito a casa e chiesi alla
mamma due lenzuola. Me le imprestò volentieri; le portai e rimasi a
fare compagnia alla figlia dell'ammalato, che visse ancora 12 giorni.
Una ragazza venne un giorno ad avvisarci che una sua vicina stava per
morire. Mia sorella prese un libro di devozioni, l'acqua benedetta e
corse presso la moribonda. Due alunne sarte e io la accompagnammo.
Deolinda iniziò la preghiera per la buona morte benché fosse tanto
turbata da tremare. Terminate le orazioni, la donna si spense. Allora
Deolinda disse: - Ho fatto quello che potevo; non mi sento di fare
altro. - E se ne andò. Anche una nipote se la svignò. Io osservai la
figlia della defunta e non ebbi il coraggio di lasciarla sola. Rimasi
ad aiutarla a lavare e a vestire la salma che era tutta piagata ed
esalava un puzzo ripugnante. Mi pareva di svenire da un momento
all'altro. Una donna che ci osservava dalla camera vicina notò il mio
malessere ed uscì a prendere delle foglie profumate per farmele
odorare. Me ne venni di là quando la defunta fu ben sistemata sul
letto. Avevo 11 o 12 anni quando i miei zii, che abitavano nel paese di
S. Eulalia, si ammalarono di spagnola. Accorsero ad assisterli mia
nonna e poi mia mamma, ma si buscarono la stessa malattia; allora,
sebbene fossi molto giovane, andai con mia sorella a prenderne cura.
Una notte mio zio morì. Rimanemmo colà fino alla Messa del settimo
giorno. Una volta fu necessario andare a prendere il riso attraversando
la camera ove mio zio era morto. Arrivata sulla soglia, mi prese la
paura. Non ebbi il coraggio di entrare e dovette venire con me mia
nonna. Una sera fui incaricata di chiudere le finestre di quella
camera. Giunta alla saletta attigua dissi a me stessa: - Devo perdere
la paura! - E così dicendo camminai adagio di proposito, aprii la porta
e passai dove era stata la salma dello zio. Da allora non ebbi più
paura: mi ero vinta.
Godevo molto nel fare l'elemosina ai poveri. Quante volte piangevo
perché impotente ad aiutarli secondo i loro bisogni! Mi sentivo felice
di privarmi persino del mio cibo.
Benché fossi molto giovane, diedi sovente consigli a persone di una
certa età. Le confortavo come meglio sapevo, ottenendo che molti
evitassero di fare del male. Delle confidenze che mi facevano
conservai sempre il più rigoroso segreto. Mi sento piena di
riconoscenza verso il Signore. A Lui solo devo di essermi comportata
così.
Devozione a Gesù.
Non tralasciavo un giorno di pregare, in chiesa, a casa e lungo le
strade; facevo sempre la comunione spirituale così: - O mio Gesù, vieni
al mio povero cuore! Io Ti desidero: non tardare. Vieni ad arricchirmi
delle tue grazie, aumenta in me il tuo santo e divino amore. Uniscimi a
Te! Nascondimi nel tuo sacro Costato! Non voglio bene che a Te. Solo
Te amo, solo Te voglio, solo per Te sospiro. Ti ringrazio, eterno
Padre, per avermi lasciato Gesù nel santissimo Sacramento. Ti
ringrazio, mio Gesù, e, infine, Ti chiedo la santa benedizione. Sia
lodato ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento! -
Amavo molto fare meditazione sul santissimo Sacramento e sulla Madonna;
quando non potevo farlo di giorno, lo facevo di notte, nascosta a
tutti, accendendo una candela che tenevo riposta per questo scopo.
Le vite dei santi e le meditazioni molto profonde non mi
soddisfacevano, perché vedevo che in nulla assomigliavo ai santi;
invece di farmi bene mi facevano male.
Nel 1916 mi ammalai gravemente fino a dover ricevere il Sacramento
dell'Olio Santo. Mi preparai alla morte molto serenamente. Un giorno,
con la febbre alta, caddi in delirio, ma mi ricordo di aver chiesto
alla mamma che mi desse Gesù. Ella mi porse il crocifisso. - Non è
questo che voglio: voglio Gesù Eucaristico! - A dodici anni fui
aggregata al gruppo di canto e delle catechiste. Per il canto avevo
una vera passione. Lavoravo con molta soddisfazione anche nella scuola
di catechismo.
Quando facevo la Comunione e mi trovavo tra le compagne a fare il
ringraziamento mi sentivo molto piccola e la più indegna di ricevere
Gesù Eucaristico.
Ero molto forte: un duro lavoro
Ero molto forte. Ricordo che un giorno un uomo si vantava con alcune
ragazze di essere molto robusto. Io mi lanciai contro di lui che se ne
stava seduto, lo afferrai e lo stesi a terra. Si mise a gridare di
lasciarlo, ma io lo rotolai, abbandonandolo soltanto quando lo volli:
il mio fine era solo quello di ottenere che egli, essendo uomo,
mostrasse la forza di cui si vantava. Sui 13 anni diedi un potente
schiaffo ad un uomo che mi aveva rivolto una frase sconcia. Dai 12 ai
14 anni ho goduto di una normale buona salute; lavoravo in campagna
così bene che guadagnavo tanto quanto la mamma.
Una volta, raccogliendo, su di un rovere, le foglie da dare alle
bestie, caddi al suolo e rimasi qualche istante senza respirare e
senza potermi muovere; poi mi rialzai e ripresi il lavoro. Dai 12 ai 13
anni fui posta dalla mamma a servizio di un vicino a queste condizioni:
libertà di andare a confessarmi ogni mese; libertà, nei pomeriggi della
domenica, di starmene a casa e di andare alle funzioni religiose;
proibizione di farmi uscire all'imbrunire. Il contratto era per cinque
mesi, ma non li terminai. Il padrone era un aguzzino: mi dava nomignoli
spregiativi, mi obbligava ad un lavoro superiore alle mie forze. Era un
uomo senza pazienza, crudele perfino con gli animali. Mi umiliava
davanti a chiunque. Quella vita triste rubava la gioia della mia
giovinezza.
Un pomeriggio mi mandò al mulino, dove giunsi sul far della sera;
quando rincasai era già scuro, perché ci voleva un'ora di strada. Egli
mi sgridò duramente, mi diede persino della ladra. Suo padre, già
vecchio, prese le mie difese. Siccome per la notte ritornavo sempre a
casa mia, quella volta, assai offesa perché la mia coscienza non mi
rimproverava di nulla, mi lamentai con la mamma. Ella, informatasi
dell'accaduto e constatato che le condizioni del contratto non erano
state rispettate, mi ritirò dal servizio, nonostante le insistenze del
padrone. Una volta, a Póvoa de Varzim, quel padrone mi aveva lasciata,
dalle 22 alle 4 del mattino, a custodire quattro coppie di buoi mentre
egli con un suo amico se ne era andato non so dove. Piena di paura,
passai così quelle tristissime ore della notte. Mi furono compagne le
stelle del cielo che brillavano molto.
Un sogno che non dimenticai
Una sera andavo dalla cucina alla camera con un lume che mi si spense.
Lo riaccesi più volte ed altrettante si spense, senza che vi fosse un
soffio di vento. Quando tentai di accenderlo per l'ultima volta caddi,
rovesciando il petrolio che mi sprizzò in faccia e in bocca. Pensai che
fosse un diavoletto dispettoso ed esclamai: - Puoi andartene perché con
me non hai nulla da fare. - Mi coricai tranquilla, mi addormentai e
feci un sogno che rimase impresso nel mio animo. Salii fino al paradiso
attraverso una scaletta dai gradini tanto minuscoli che a stento vi
poggiavo la punta dei piedi. Arrivai lassù con difficoltà,
impiegandoci molto tempo perché non vi era nulla cui aggrapparsi.
Durante la salita vidi ai lati della scala alcune anime che mi
confortavano senza parlare. Lassù vidi su di un trono il Signore e al
suo fianco la Mamma celeste; il cielo era affollato di beati. Dopo
quella visione, pur non volendo, dovetti ritornare sulla terra. Discesi
facilmente; tutto scomparve e mi svegliai.
II salto dalla finestra
Un giorno mentre in casa aiutavo mia sorella sarta ed una apprendista
intravvedemmo sulla strada tre uomini: il mio antico padrone, un altro
uomo sposato e un terzo celibe. Mia sorella, avendo intuito qualche
cosa dai loro gesti e vedendoli imboccare il sentiero di casa nostra,
ci ordinò di chiudere la porta. Qualche istante dopo li udimmo salire
la scaletta e bussare. Rispose Deolinda, dicendo che si apriva solo ai
clienti. Il mio padrone, che conosceva la casa, passò per la cantina
situata al pian terreno e salì per la scala interna mentre gli altri
aspettavano presso la porta. Non potendo entrare per la botola chiusa e
su cui trascinammo subito la macchina da cucire, il padrone armato di
una mazza batté furiosamente sugli assi della botola fino a spaccarla e
ad aprirsi un varco. Deolinda, afferrata da lui per la sottana, riuscì
a liberarsi ed aprì la porta per fuggire. L'altra ragazza le andò
dietro, ma uno dei tre la trattenne e se la abbracciò sedendosi sul
letto. Io, nel vedere il pericolo, mi buttai dalla finestra in
giardino, con un salto di circa quattro metri; tentai di rialzarmi, ma
non ci riuscii per un forte dolore al ventre. Nel salto smarrii il mio
anello. Ripreso coraggio, mi armai prendendo un palo della vigna come
bastone e attraverso il cancelletto dell'orto andai in cortile ove mia
sorella stava discutendo con i due uomini sposati. L'altra ragazza era
nella camera con il terzo. Avvicinandomi li chiamai « cani » e
minacciai che se non liberavano la ragazza mi sarei messa a chiamare
aiuto: mi ubbidirono. Fu allora che mi accorsi di aver perduto l'anello
e gridai: - Cani, per causa vostra ho perduto l'anello! - Uno di loro,
mostrandomi la sua mano con vari anelli, mi disse: - Scegli qui! -
Sdegnata, gli gridai: - Non voglio! -
Vedendoci risolute e sprezzanti, se ne andarono e noi ritornammo al lavoro.
Dell'accaduto non parlammo con nessuno, ma la mamma venne a conoscenza
di tutto. Poco dopo incominciai a soffrire sempre di più. Tutti
dicevano che era per il salto dalla finestra. Anche i medici più tardi
confermarono che quel salto doveva avere contribuito alla mia infermità.
Sofferenze fisiche e spirituali
Lavorai ancora per alcuni mesi con molta difficoltà; poi fui costretta
a smettere e con ripugnanza dovetti sottopormi alle cure dei medici che
mi diagnosticavano malattie varie. Tutti avevano pena di me e soffrivo
solo per i miei mali fisici, ma ciò durò poco.
Le mie più grandi amiche, i familiari e persino lo stesso parroco si
misero contro di me: parecchie persone mi schernivano per la mia
andatura, per la posizione che, forzatamente, prendevo in chiesa. Il
parroco mi accusava di non mangiare a sufficienza per capriccio e mi
ammoniva che se fossi morta mi sarei dannata. Confessandomi mi diceva
che era proprio questo il mio peccato più grave. Quanto ne ho sofferto!
Mi confidavo soltanto con il Signore. Nel tragitto dalla casa alla
chiesa ero solita soffermarmi a guardare le montagne ed ero tentata di
fuggire in un luogo ove nessuno mi vedesse. Non l'ho fatto solo per
grazia di Dio. Quanto ho pianto! Non ricordo bene quanto durò questa
incomprensione; forse meno di un anno. Poi, siccome peggioravo, il
parroco stesso consigliò mia madre di accompagnarmi da un medico suo
conoscente. Fu lui che mi liberò dal mio martirio, spiegando a chi gli
domandava di me che non mangiavo perché non potevo. Anche se non gli fu
possibile immaginare pienamente le mie sofferenze, si mostrò molto
comprensivo. Fui sollevata da questa sofferenza, ma il Signore ne
permise un'altra ancora maggiore. Ne ebbe conoscenza soltanto Gesù e,
anni dopo, il mio padre spirituale. Passai sei anni tra letto e
lettuccio. Una volta trascorsi cinque mesi senza potermi alzare ma
sempre in quella sofferenza spirituale che sopportai per 12 anni,
senza svelarla a nessuno.
Trovandomi sola, prigioniera del mio letto, guardavo in lacrime il
quadro del sacro Cuore di Gesù: Lo supplicavo di liberarmi da quel
tormento e di darmi luce sul da farsi. Così pure mi raccomandavo alla
Madonna perché intercedesse per me.
Pretendenti
Sui 16 anni andai con Deolinda a Póvoa per una cura marina. Un giorno,
mentre mi recavo in chiesa, un militare mi si avvicinò rivolgendomi
galanterie. Mi schermii subito, ma, siccome non si allontanava, gli
proposi di attendermi dopo la funzione. Nella mia mente pensavo di
cambiare strada e di poterlo schivare. Uscita di chiesa, molto
guardinga, non lo vidi e passai per la stessa via. Ad un certo momento
me lo trovai davanti senza rendermi conto di dove fosse spuntato. -
Signorina, che cosa mi ha promesso? - E così dicendo pretendeva
accompagnarmi a casa. Mi fermai e gli fui franca: - Sono ammalata e
poi... mia madre non vuole che io faccia l'amore! - Egli non si
convinse. Per fortuna comparve Deolinda. Pensando che io stessi a fare
l'amore mi sgridò aspramente. Non passai più per quella strada e tutto
finì.
Ad un altro giovane che mi accennò al matrimonio risposi: - Non
rinuncio alla mamma e a Deolinda per un uomo. – Il parroco, avendo
saputo che io piacevo ad un giovanotto, mi disse un giorno: - Se lo
vuoi, io mi interesso della faccenda. - Gli risposi: - Le pare che
nelle mie condizioni possa permettermi di propormi tale problema? - In
verità io sapevo e sentivo di essere ammalata, ma inoltre mi mancava
l'inclinazione al matrimonio, anche se talora mi passava per la mente
che se fossi diventata mamma avrei educato i figli molto cristianamente.
A Ietto per sempre
Nell'aprile 1925 [giorno 14] mi posi a letto per sempre. Non mi si
diceva più: - Coraggio, ti rialzerai. - Il medico Giovanni da Almeida
di Oporto avvisò mia mamma che temeva una totale paralisi. Mia
sorella, che faceva la sarta, divenne anche la mia infermiera, perché
la mamma lavorava in campagna. Ebbi ore di scoraggiamento, ma mai di
disperazione. Nulla mi legava al mondo. Provavo soltanto nostalgia per
il mio giardinetto, perché mi piacevano i fiori e qualche volta,
portata in braccio da mia sorella, potei ancora vederlo. Sentivo molta
nostalgia per la nostra chiesa: nella festa del sacro Cuore o quando si
celebrava messa cantata piangevo amaramente. Mia sorella, che faceva
parte del coro, nel vedermi in lacrime mi diceva: - Se fosse possibile
stare in chiesa coricati ti ci porterei in braccio. - E piangeva pure
lei. Però ero conformata alla volontà del Signore. A poco a poco mi
abituai al letto e la nostalgia si spense. Per distrarmi, nei primi
tempi, giocavo a carte con qualcuno o anche da sola. Mi spiace di non
aver fin da allora pensato come penso oggi: cioè di vivere unita in
spirito al mio Gesù. Giunsi a fare voti per ottenere la guarigione;
come me, la mamma, la sorella, le cugine. Infine capii che il Signore
mi voleva ammalata; perciò non chiesi più di guarire. Arrivai più
volte, molto rassegnata, alle soglie della morte. Dalla medicina non
ebbi altro sollievo che qualche iniezione di morfina.
La mia Mamma Celeste
Tutti gli anni celebravo il mese mariano. Preferivo celebrarlo da
sola: meditavo, cantavo, piangevo chiedendo alla Mamma celeste di
liberarmi da quella grande tribolazione che mi faceva soffrire tanto.
Solevo cantare il « Tantum ergo » come se fossi stata in chiesa. Non
avendo Gesù in casa né sacerdote che mi benedicesse, pregavo il
Signore che lo facesse Lui dal cielo e dai suoi tabernacoli. Momenti
felici! Mi pareva piovessero su di me tutte le benedizioni e l'amore
del Signore. Ed allora abbracciavo nel mio cuore tutta la mia famiglia
e le persone care. Nei primi anni della mia degenza, dalla casa del
parroco mi portavano, all'inizio di maggio, una statuetta del Cuore di
Maria che, con rincrescimento, restituivo alla fine del mese. Fu così
che pensai al modo di acquistarmene una, ma poiché non ne avevo i
mezzi, fui aiutata da varie persone. Un'amica mi donò alcune
pollastrelle che Deolinda allevò fino a che fecero le uova e le
covarono; venduti i pulcini, comprai la statuetta, la mensola e la
campana di vetro. Non so dire la gioia che provai nell'avere una
Madonnina tutta mia: potevo contemplarla giorno e notte.
Se un giorno mi rivedrete per la strada...
Mi giunse notizia dei miracoli che avvenivano a Fatima. Nel 1928 varie
persone della parrocchia andarono pellegrine alla Cova da Iria; in
quella occasione venne anche a me il desiderio di partire. Il medico ed
il parroco non me lo consentirono, perché il viaggio era lungo ed io
non sopportavo neppure che mi toccassero il letto. Fui consigliata di
chiedere ugualmente la guarigione e di andare poi a Fatima in
ringraziamento. Il medico diceva che se fosse avvenuto il miracolo, lo
avrebbe testimoniato senza timore.
In quello stesso anno anche il parroco andò alla Cova da Iria: mi portò
di là una corona del Rosario, una medaglietta ed il « Manuale del
pellegrino »; consigliandomi una novena alla Madonna. Ne feci
parecchie, cantando le lodi mariane stampate nel libretto
A chi mi visitava solevo dire: - Se un giorno mi rivedrete per la
strada e mi sentirete cantare, ditelo a tutti: è Alexandrina che
ringrazia la Madonna. - Era la mia fiducia in Gesù e Maria che mi
faceva parlare così. Tra me pensavo che se fossi guarita mi sarei fatta
suora, perché mi spaventava vivere nel mondo; che non sarei più
ritornata a rivedere la mia famiglia; che mi sarei fatta missionaria
per battezzare tanti moretti e per salvare anime a Gesù. Non avendo
ottenuto la guarigione, compresi che mi illudevo e quei miei desideri
scomparvero per sempre. Cominciai a sentire ognor più l'ansia di amare
la sofferenza e di pensare soltanto a Gesù.
Mi offersi a Gesù Sacramentato come vittima
Un giorno, mentre ero sola e pensavo a Gesù nel tabernacolo, Gli
dissi: - Mio buon Gesù, Tu sei imprigionato. Anch'io lo solo. Siamo
ambedue carcerati. Tu per il mio bene
ed io incatenata da Te. Tu sei Re e Signore di tutto. Io sono un verme
della terra. Ti ho trascurato pensando alle cose del mondo che sono
perdizione per le anime, ma ora, pentita di cuore, voglio ciò che Tu
vuoi, voglio soffrire rassegnata. Non lasciarmi senza la tua
protezione. - Da parecchio tempo chiedevo al Signore amore alla
sofferenza e, senza sapere il modo, mi offersi a Lui come vittima. Il
Signore mi concesse questa grazia in misura tanto abbondante che oggi
non cambierei la sofferenza con quanto esiste nel mondo. Amante del
dolore, ero contenta di offrire a Gesù i miei patimenti. Mi preoccupava
soltanto consolare Gesù e salvargli anime. Perdute le forze fisiche,
abbandonai le distrazioni e, attraverso la preghiera che mi dava un
vero conforto, mi abituai a vivere in intima unione col Signore. Quando
le visite mi distraevano un poco, ne rimanevo spiacente per non aver
pensato a Gesù. Per amore di Gesù e della Mamma celeste mi abituai a
fare piccoli sacrifici: rinunciare a guardarmi nello specchio; non
parlare per combattere la mia voglia di parlare e viceversa; vegliare
durante la notte per fare compagnia a Gesù; non allontanare le mosche
che mi tormentavano, ecc.
Unita a Gesù sacramentato attraverso Mammina
Facevo la Comunione sacramentale poche volte, ma vivevo unita a Gesù il
più possibile. Per onorare Gesù e la Mamma del cielo scrissi su pezzi
di carta ed immagini questa preghiera: - Gesù, Ti amo con tutto il
cuore. Abbi pietà di questa povera ammalata. Prendila con Te quando
vuoi. Mio amato Gesù, non dimenticarti di me, perché sono una grande
peccatrice. Mio caro Gesù, vorrei visitarti nei tuoi tabernacoli, ma
non posso; la mia malattia mi lega al mio caro lettuccio. Sia fatta la
tua volontà. Ma concedimi almeno che non passi un momento senza che io
venga in spirito ai tuoi tabernacoli per dirti: « mio Gesù, voglio
amarti, voglio incendiarmi nella fiamma del tuo Amore, pregare per i
peccatori e per le anime del purgatorio ». - (1930).
Sulla copertina di un libretto scrissi nel maggio 1930: - Mia cara
Mamma del cielo, vieni ai tabernacoli del tuo e mio Gesù, presentagli
Tu le mie preghiere e rendi valide le mie suppliche. O rifugio dei
peccatori, di' a Gesù che voglio essere santa. Digli inoltre che
voglio molte sofferenze, ma che non mi lasci sola neppure un minuto. lo
devo soltanto umiliarmi, perché nulla sono, nulla posseggo, nulla
valgo. Digli che Lo amo molto, ma che Lo voglio amare assai di più.
Voglio morire bruciata nell'amore tuo e di Gesù. Sì, digli molte cose
di me, fagli tutte le mie richieste! Confido, confido in Te! O Maria,
dammi il cielo! -
La mia preghiera del mattino
Al mattino iniziavo le mie preghiere col segno di croce; quindi mi
univo a Gesù dicendo: - Cuore di Gesù, è per Te questo giorno. - E vi
aggiungevo: - Dammi la Tua benedizione! Voglio essere santa. - Poi
chiedevo la benedizione alla Trinità santissima, alla Madonna, a San
Giuseppe e a tutti i Santi del cielo dicendo: - Con la vostra
benedizione non avrò timore di nulla. Sarò santa come ardentemente
desidero. -
Quindi dicevo a Gesù: - Mi unisco spiritualmente ora e per sempre a
tutte le sante Messe che, giorno e notte, si celebrano sulla terra.
Gesù, immolami ogni momento con Te sull'altare del Sacrificio, offrimi
all'Eterno Padre secondo le tue stesse intenzioni. -
Rivolgendomi poi alla Mamma celeste, Le dicevo: - Ave, Maria, piena di
grazia!... O Mammina, voglio essere santa; benedicimi e chiedi a Gesù
di benedirmi! -
Mi consacravo a Lei così: - Mammina, Ti consacro i miei occhi, il mio
udito, la mia bocca, il mio cuore, la mia anima, la mia verginità, la
mia purezza. Accetta tutto, Mamma! Tu sei lo scrigno benedetto di ogni
nostra ricchezza. Ti consacro il mio presente e il mio futuro, la mia
vita e la mia morte, tutto quanto daranno a me, tutte le preghiere e le
offerte che faranno per me. Apri le tue braccia e prendimi. Stringimi
al tuo Cuore santissimo, coprimi col tuo manto; ricevimi come figlia
amata e consacrami tutta a Gesù. Chiudimi per sempre nel suo Cuore
divino e digli che Tu Lo aiuterai a crocifiggermi nel corpo e
nell'anima. Fammi umile, obbediente e casta nell'anima e nel corpo.
Trasformami in amore; consumami nelle fiamme dell'amore di Gesù...
Mammina, vieni con me a tutti i tabernacoli del mondo ove Gesù abita
sacramentalmente. Offrimi a Lui. Mammina, voglio formare una roccia di
amore davanti ad ogni sua dimora, perché nulla giunga a ferire il suo
Cuore e rinnovi le sue Piaghe e la sua Passione. Mammina, parla a Gesù
col mio cuore e le mie labbra; rendi più fervorose le mie preghiere,
più valide le mie richieste. –
Una trincea di amore a difesa dei tabernacoli
« O mio Gesù, io voglio che ogni mio dolore, ogni palpito del mio
cuore, ogni mio respiro, ogni minuto secondo che trascorrerò, siano
atti di amore per i tuoi tabernacoli.
Io voglio che ogni movimento dei miei piedi, mani, labbra, lingua,
occhi, che ogni lacrima e sorriso, ogni allegria e tristezza, ogni
tribolazione e distrazione, ogni contrarietà o dispiacere, siano atti
di amore per i tuoi tabernacoli. Io voglio che ogni sillaba delle
orazioni che reciterò o udirò recitare, ogni parola che pronuncerò o
udirò pronunciare, che leggerò o udirò leggere, che scriverò o vedrò
scrivere, che canterò o udirò cantare, siano atti di amore per i tuoi
tabernacoli. Io voglio che ogni bacio che darò alle tue sante immagini,
a quelle della tua e mia Madre, a quelle dei tuoi santi e sante, siano
atti di amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, io voglio che ogni goccia
di pioggia che viene dal cielo alla terra, che tutta l'acqua del mondo
offerta goccia a goccia, che tutta l'arena del mare e tutto ciò che il
mare contiene, siano atti di amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, io
Ti offro le foglie degli alberi, tutti i frutti che possono avere, i
fiori petalo per petalo, tutti i granelli di semente che sono nel
mondo e tutto ciò che vi è nei giardini, nei campi, nelle valli e nei
monti, come atti di amore per i tuoi tabernacoli.
O Gesù, Ti offro le penne degli uccelli e il loro canto, i peli e le voci di tutti gli animali,
come atti di amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, Ti offro il giorno e
la notte, il caldo e il freddo, il vento, la neve, la luna e i suoi
raggi, il sole, l'oscurità, le stelle del firmamento, il mio dormire e
il mio sognare, come atti di amore per i tuoi tabernacoli.
O Gesù, Ti offro tutto quanto vi è nel mondo, le grandezze, le
ricchezze, i tesori, tutto quanto avviene in me, tutto quanto ho per
abitudine di offrirti, tutto quanto si possa immaginare, come atti di
amore per i tuoi tabernacoli. O Gesù, accetta il cielo e la terra, il
mare, tutto ciò che contengono come se tutto fosse mio e io potessi
disporne, come atti di amore per i tuoi tabernacoli ». Mentre facevo
queste offerte a Gesù mi sentivo rapita, non so spiegare il modo ed
allo stesso tempo sentivo un calore forte che pareva bruciarmi. Mi
pareva cosa strana perché erano giornate di freddo e, meravigliata,
osservavo se il mio corpo sudasse. Mi sentivo abbracciata
interiormente. Ciò mi stancava assai
Un programma di vita
Mi pare che sia stato in una di queste occasioni che io sentii la
seguente ispirazione del Signore: « Soffrire, amare, riparare »
Ricordo che molte volte domandavo al Signore: - O mio Gesù, cosa vuoi
che io faccia? - E ogni volta non sentivo se non queste parole:
soffrire, amare, riparare.